venerdì 14 settembre 2012

SULLA STRADA



Una giornata logorante. Una di quelle in cui i muscoli lavorano senza sosta, in cui ti asciughi il sudore dalla fronte col dorso della mano e in cui ti stropicci gli occhi o massaggi le tempie per trovare ristoro.
La cosa peggiore è che oggi è stato anche particolarmente vuoto, l'apoteosi dei chiacchiericci sul tempo ( osservazioni minuziose su escursione termica giorno-notte, tasso di umidità, eventuali rovesci notturni, temperature previste per la serata e/o per i prossimi giorni; si direbbe che siamo un popolo di potenziali meteorologi), della politica da bar, del chi sta sulla poltrona pensa solo al dio quattrino. Anche le facce dei clienti oggi sembravano tutte grigie, tutte ugualmente insipide, un monotono serrato susseguirsi di “un caffè”, “un caffè alto in vetro”, “un caffè macchiato caldo”, “un caffè macchiato freddo”, “un caffè semialto”.
Ora me ne sto sdraiata sul letto, con il tintinnio dei cucchiaini e della porcellana delle tazzine ancora nelle orecchie. Ho fame, lo stomaco dolorosamente contratto e la bocca piena di saliva. Eppure rimango distesa, a massaggiarmi la porzione di pancia che sbuca fuori dalla camicia e fissare con insolito interesse il lampadario e la sua ombra proiettata sul soffitto. La sola idea di andare in cucina e mettere mano al frigorifero mi sembra più uggiosa e squallida di una domenica pomeriggio passata davanti alla tv. Mi alzo, invece, ed esco. Ho bisogno d'ossigeno, di molta più aria di quella tra le quattro mura del mio appartamento.
Il portone del palazzo si chiude con il solito schianto, il semaforo è rosso; aspettando, guardo chi c'è all'altra estremità delle strisce. Delle quattro persone, spicca una deliziosa ragazza con lisci capelli di liquirizia, un abito fiorito lungo fino alle caviglie e rossetto color ciclamino. Scatta il verde; mentre ci incrociamo attraversando, sbircio il titolo del libro che tiene in mano: Memorie dalla casa dei morti, Fedor Dostoevskji.
Il marciapiede brulica di gente; supero una gracile vecchietta, alta sì e no un metro e quaranta, con una vaporosa acconciatura candida ( zucchero filato!) e un tailleur rosa pesca. Posso vederla mentre si prepara, con la stessa risoluta lentezza con cui ora cammina ( la sua camera: pesanti mobili in legno scuro d'inizio secolo, centrini, il rosario appeso alla testata del letto, foto di chi non c'è più, un quadro della madonna e un odore di borotalco e acqua di viole misto a naftalina).
Comincio a sentire un lieve sensazione di benessere: mi lascio trascinare dal flusso della strada senza che il pensiero di raggiungere una meta a un certo orario per uno scopo preciso mi guidi. Cammino indolente guardando i tetti dei palazzi, i panni stesi sui balconi, i messaggi sui muri ( “Gabrie', fatti senti' che ho perso il numero – Lino”). Passo davanti a una pizzeria al taglio e l'odore pastoso di formaggio fuso, focaccia e peperoni mi riempie le narici; subito il mio stomaco brontola sonoramente. Poche centinaia di metri dopo è invece un intenso aroma di curry ad uscire da un take-away indiano; al secondo piano del palazzo di fronte qualcuno sta ascoltando Joe Cocker. La finestra è aperta e riesco a vedere un poster di Pulp Fiction e un bersaglio per freccette appesi al muro.
Sbatto improvvisamente la spalla destra contro un ragazzo.
-        Scusa...- la voce mi esce rauca; è da un po' che me ne sto zitta.
Scuote appena la testa, scacciando le mie scuse con un gesto frettoloso e senza neppure fermarsi. Torno ad osservare chi proviene dalla direzione opposta alla mia; quanto è variopinta la fiumana del marciapiede... Dalla moltitudine di occhi, braccia ,nasi gambe spiccano tatuaggi, piercing brillanti, mani che giocherellano con riccioli lunghi, rughe, rasta, brufoli, pance rotonde. E' come se il mio si frammentasse in ognuna di queste identità, come se uscissi dalla mia pelle per infilarmi in quella di un altro e poi di un altro e poi un altro ancora.
Decido di tornare verso casa, rifacendo lo stesso percorso dall'altro lato della strada. Una variazione di prospettiva.
Devo di nuovo aspettare il verde del semaforo; poco distante da me, una bancarella di frutta e verdura. Una ragazza (frangetta e lungo dreadlock, felpa zebrata, occhi bistrati di nero e minigonna di jeans sfrangiata) sta scegliendo. - Vorrei cinque pomodori. Ma proprio cinque di numero-. Aggiunge poi- Per favore-, come ricordandosi un momento troppo tardi delle lezioni di buona educazione ricevute da piccola.
- E poi un  cesto di lattuga-.
-Sono uno e quarantanove-. La ragazza fruga nelle tasche ampie della felpa, ed estrae una manciata di monete tintinnanti. Comincia a contarle sul palmo della mano, mordendosi il labbro. Alza la testa -  Non ci arrivo...ma come mai così tanto?- Segue computo della merce al kilo.
- E' che non ci arrivo....allora mi dai solo i pomodori-.  Breve pausa. - Per favore-.
Attraverso mentre il venditore rimette a posto l'insalata e batte in nuovo scontrino. Quei pomodori probabilmente li mangerà in insalata con la mozzarella più a buon mercato che è riuscita a trovare e birra fresca, preludio di una serata di musica ska, spritz e altra birra.
Mi sento sazia. Quel bisogno viscerale (la stessa curiosità che ci spinge a sbirciare fuori dalla finestra quando si sentono delle voci o il motore di un'auto avvicinarsi) che mi aveva spinto ad uscire è soddisfatto.
Solo, mi fermerò a prendere un pezzo di pizza, prima di rientrare a casa.


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