Una giornata logorante. Una di
quelle in cui i muscoli lavorano senza sosta, in cui ti asciughi il sudore
dalla fronte col dorso della mano e in cui ti stropicci gli occhi o massaggi le
tempie per trovare ristoro.
La cosa peggiore è che oggi è
stato anche particolarmente vuoto, l'apoteosi dei chiacchiericci sul
tempo ( osservazioni minuziose su escursione termica giorno-notte, tasso di
umidità, eventuali rovesci notturni, temperature previste per la serata e/o per
i prossimi giorni; si direbbe che siamo un popolo di potenziali meteorologi),
della politica da bar, del chi sta sulla poltrona pensa solo al dio quattrino.
Anche le facce dei clienti oggi sembravano tutte grigie, tutte ugualmente
insipide, un monotono serrato susseguirsi di “un caffè”, “un caffè alto in
vetro”, “un caffè macchiato caldo”, “un caffè macchiato freddo”, “un caffè
semialto”.
Ora me ne sto sdraiata sul letto,
con il tintinnio dei cucchiaini e della porcellana delle tazzine ancora nelle
orecchie. Ho fame, lo stomaco dolorosamente contratto e la bocca piena di
saliva. Eppure rimango distesa, a massaggiarmi la porzione di pancia che sbuca
fuori dalla camicia e fissare con insolito interesse il lampadario e la sua
ombra proiettata sul soffitto. La sola idea di andare in cucina e mettere mano
al frigorifero mi sembra più uggiosa e squallida di una domenica pomeriggio
passata davanti alla tv. Mi alzo, invece, ed esco. Ho bisogno d'ossigeno, di
molta più aria di quella tra le quattro mura del mio appartamento.
Il portone del palazzo si chiude
con il solito schianto, il semaforo è rosso; aspettando, guardo chi c'è
all'altra estremità delle strisce. Delle quattro persone, spicca una deliziosa
ragazza con lisci capelli di liquirizia, un abito fiorito lungo fino alle
caviglie e rossetto color ciclamino. Scatta il verde; mentre ci incrociamo
attraversando, sbircio il titolo del libro che tiene in mano: Memorie dalla
casa dei morti, Fedor Dostoevskji.
Il marciapiede brulica di gente;
supero una gracile vecchietta, alta sì e no un metro e quaranta, con una
vaporosa acconciatura candida ( zucchero filato!) e un tailleur rosa pesca.
Posso vederla mentre si prepara, con la stessa risoluta lentezza con cui ora
cammina ( la sua camera: pesanti mobili in legno scuro d'inizio secolo,
centrini, il rosario appeso alla testata del letto, foto di chi non c'è più, un
quadro della madonna e un odore di borotalco e acqua di viole misto a
naftalina).
Comincio a sentire un lieve
sensazione di benessere: mi lascio trascinare dal flusso della strada senza che
il pensiero di raggiungere una meta a un certo orario per uno scopo preciso mi
guidi. Cammino indolente guardando i tetti dei palazzi, i panni stesi sui
balconi, i messaggi sui muri ( “Gabrie', fatti senti' che ho perso il numero –
Lino”). Passo davanti a una pizzeria al taglio e l'odore pastoso di formaggio
fuso, focaccia e peperoni mi riempie le narici; subito il mio stomaco brontola
sonoramente. Poche centinaia di metri dopo è invece un intenso aroma di curry
ad uscire da un take-away indiano; al secondo piano del palazzo di fronte
qualcuno sta ascoltando Joe Cocker. La finestra è aperta e riesco a vedere un
poster di Pulp Fiction e un bersaglio per freccette appesi al muro.
Sbatto improvvisamente la spalla
destra contro un ragazzo.
-
Scusa...- la voce mi esce rauca; è da un po' che
me ne sto zitta.
Scuote appena la testa,
scacciando le mie scuse con un gesto frettoloso e senza neppure fermarsi. Torno
ad osservare chi proviene dalla direzione opposta alla mia; quanto è variopinta
la fiumana del marciapiede... Dalla moltitudine di occhi, braccia ,nasi gambe
spiccano tatuaggi, piercing brillanti, mani che giocherellano con riccioli
lunghi, rughe, rasta, brufoli, pance rotonde. E' come se il mio si frammentasse
in ognuna di queste identità, come se uscissi dalla mia pelle per infilarmi in
quella di un altro e poi di un altro e poi un altro ancora.
Decido di tornare verso casa,
rifacendo lo stesso percorso dall'altro lato della strada. Una variazione di
prospettiva.
Devo di nuovo aspettare il verde
del semaforo; poco distante da me, una bancarella di frutta e verdura. Una
ragazza (frangetta e lungo dreadlock, felpa zebrata, occhi bistrati di nero e
minigonna di jeans sfrangiata) sta scegliendo. - Vorrei cinque pomodori. Ma
proprio cinque di numero-. Aggiunge poi- Per favore-, come ricordandosi un
momento troppo tardi delle lezioni di buona educazione ricevute da piccola.
- E poi un cesto di lattuga-.
-Sono uno e quarantanove-. La
ragazza fruga nelle tasche ampie della felpa, ed estrae una manciata di monete
tintinnanti. Comincia a contarle sul palmo della mano, mordendosi il labbro.
Alza la testa - Non ci arrivo...ma come
mai così tanto?- Segue computo della merce al kilo.
- E' che non ci arrivo....allora
mi dai solo i pomodori-. Breve pausa. -
Per favore-.
Attraverso mentre il venditore
rimette a posto l'insalata e batte in nuovo scontrino. Quei pomodori
probabilmente li mangerà in insalata con la mozzarella più a buon mercato che è
riuscita a trovare e birra fresca, preludio di una serata di musica ska, spritz
e altra birra.
Mi sento sazia. Quel bisogno
viscerale (la stessa curiosità che ci spinge a sbirciare fuori dalla finestra
quando si sentono delle voci o il motore di un'auto avvicinarsi) che mi aveva
spinto ad uscire è soddisfatto.
Solo, mi fermerò a prendere un
pezzo di pizza, prima di rientrare a casa.
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