Another love song
Per E.
Lui e Lei non sono mai destinati
a stare insieme. Non importa se si amano davvero; prendete “Casablanca”, ad
esempio. Il vero amore esiste solo nelle commedie romantiche con Meg Ryan.
Questo mi hanno insegnato 28 anni di vita su questo pianeta, questo e che non
bisogna mettere la moka in lavastoviglie. Specialmente se le siete affezionati.
E’ quasi ferragosto; per stasera
è in agenda una riunione chez moi per
organizzare un falò sulla spiaggia. Dalla parete, Kim Basinger mi lancia uno
sguardo languido; Dio, quant’è gnocca in 9
settimane e ½.... Mi sdraio sul divano canticchiando a mezza voce “You can
leave your hat on” e cado addormentata.
Mi risveglio nel panico, con un
pungente sapore metallico in bocca e la convinzione che sia tardissimo. Sguardo
al display del cellulare: 19,30. A che ora arrivano? “Alle otto”, mi rispondo.
E’ tardissimo.
Be’, io adoro fare le cose di
fretta; è come se lanciassi una sfida al tempo. E quando è lui a vincere, io
perdo il treno o prendo una multa per eccesso di velocità. Stasera finiamo in pareggio. Quando suonano alla porta i miei ricci sono
ancora umidi e mi sono passata il kajal solo sulla palpebra destra. Però
l’incenso arde silenziosamente in salotto, i posacenere sono svuotati e non
indosso più la t-shirt dei Metallica.
Non conosco tutti; ci sono un
paio di amici di amici chiamati per fare numero. Da brave carogne, tendiamo ad
evitare di includere le coppie. Che se ne stiano pure a pomiciare sul loro
divano, perdio.
Si stappino le birre, che la
seduta abbia inizio. Dapprima c’è la solita caciara di idee inconcludenti, con
la piattola di turno che deve trovare questioni e cavilli su cui continuerà a
insistere fino alla sera del falò, con quel gusto per il dettaglio nanoscopico
di ingegnere termonucleare. Mi accendo una sigaretta. Bado ad aspirare
profondamente, a trattenere il fumo in bocca e a soffiarlo fuori piano piano,
lentamente, formando rivoletti bianchi. Detesto le questioni pragmatiche ; le
minuzie organizzative mi annoiano.
Dopo un’ora si è deciso chi porta
la sangria, chi la legna, chi la chitarra e via discorrendo. La comitiva
comincia a dileguarsi, un tripudio di saluti, bacetto-bacetto sulla guancia e
scalpiccio di passi che si allontanano giù per la tromba delle scale. Rimane la
desolazione delle bottiglie ambrate abbandonate sul tavolo, pacchetti di Pall
Mall vuoti, un accendino verde scarico. Però lui indugia.
E’il solo a non essersene ancora
andato; sta guardando le varie locandine cinematografiche appese con interesse
( vero o simulato, difficile a dirsi). Mi sembra di ricordare che lui sia il
tipo che suona la chitarra.
-
Ti piace il cinema francese?-
-
Come?-. Mi prende talmente in contropiede che,
nonostante abbia sentito perfettamente quello che ha detto, non riesco a
cavarne fuori il senso.
-
Ti piace il cinema francese?
-
Ah....sisì, ma non lo conosco bene... non bene
come quello italiano o americano-.
-
Hai mai visto Jules e Jim?-
-
No-.
-
Guardalo. Lo adorerai-.
-
Ah be’...grazie...chi è il regista?-.
Mentre lui disquisisce su
Chabrol, appunto lo sguardo sul suo ciondolo di legno e sulle piccole
lentiggini che puntellano naso guance braccia e gambe. La voce di questo
estraneo (Gesù, com’è che si chiama??) riempie le stanze, si impone, diventa
solida e tangibile. Meccanicamente comincio a togliere le birre vuote dal
tavolo. Con movimenti lenti e senza smettere di guardarlo. Si avvicina
prontamente a me e afferra lesto le bottiglie rimanenti. Anche io torno a
muovermi a velocità normale- qualcuno deve aver tolto il fermo immagine.
Ormai sono le nove e mezzo
passate. Le ultime gocce di sole si sono asciugate.
-
Avevi programmi per stasera?-. Getta nel pattume
l’ultima lattina.
-
No, non sapevo quanto ci avremmo messo ad
organizzare....e tu?-.
Scuote la testa riccioluta, si
gratta la nuca. – Non proprio, forse uno spritz al bar e poi film. Roba così-.
Annuisco. Cosa dovrei fare o dire
ora da copione? Se ne vuole andare? E io voglio che se ne vada? Mi figuro la
scena: dopo averlo liquidato con una banalissima scusa x, richiudo la porta
alle sue spalle, mi giro e vago per le stanze vuote. Avrò la libertà di
stropicciarmi gli occhi impiastrandomi i polpastrelli di nero e sbavando il
trucco. Tuttavia avverto una desolata tristezza, come dopo che hai ingoiato
l’ultimo boccone di torta e raschi il piatto per raccogliere i rimasugli di
pasta frolla e crema. Oppure come quando, da bambini, una festa di compleanno
finisce e si rimane soli con i palloncini mezzi sgonfi, gli incarti e i nastri
dei regali dimenticati in un angolo, vassoi semivuoti di tramezzini e pizzette
sbocconcellate.
E allora sento la mia voce
articolare una domanda; sì, perché non mi va di piangere sulla nostalgia degli
avanzi. – Ti va di mangiare qualcosa?-.
- Volentieri. Andiamo fuori?
Pizza?-.
- Mhmm....-. Apro il frigo. Tre
lattine di Guinness e un barattolo di pesto.- Pasta al pesto? Ti va?-.
- Perfetto-.
Tra i vapori dell’acqua bollente
a l’odore di basilico esploriamo l’uno la vita dell’altro. Alessio, ecco come
si chiama. Rimasto con me per un piatto di pastasciutta. Non se n’è più andato.
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