so che non dovrei disturbarti,
ha detto lui.
dici bene, ho risposto
io.
ma, è andato avanti lui, voglio dirti
che sono stato sveglio tutta la notte
a leggere il tuo
ultimo libro.
ho letto tutti i tuoi
libri.
io lavoro all'
uffcio postale.
ah, ho detto.
e vorrei intervistarti per
il nostro giornale.
no, ho detto, niente
interviste.
perché?, mi ha chiesto.
sono stanco delle interviste, non hanno
niente a che fare con
niente.
ascolta, ha continuato, te la faccio
facile, vengo a casa
tua oppure ti offro una cena da
Musso.
no, grazie, ho detto.
guarda, l'intervista in realtà non è per
il nostro giornale, è per
me, io sono scrittore e voglio uscirmene
dall'ufficio
postale.
ascolta, ho detto io, devi solo prendere una sedia
e sederti davanti alla tua
macchina da scrivere.
niente intervista?, ha domandato.
no, ho risposto.
si è
allontanato.
stavano uscendo in pista
per la corsa successiva.
parlare con il ragazzo mi aveva
messo di cattivo
umore.
pensavano che la scrittura avesse
a che fare con
la politica delle
cose.
semplicemente non erano
abbastanza fuori
di testa
da sedersi a una
macchina da scrivere
e lasciare che le parole battano
i tasti.
non volevano
scrivere
volevano
diventare famosi
scrivendo.
sono andato a fare la mia
puntata.
è inutile farsi rovinare la
giornata
da una breve
conversazione.
Charles Bukowski
mercoledì 23 gennaio 2013
domenica 20 gennaio 2013
UN BRINDISI ALL'ASSURDITA'
Faccio spesso giochi e rituali, penso possano davvero
cambiare il destino. Per esempio: cammino per strada e mi dico che se riesco a toccare sette oggetti
verdi, mi succederà qualcosa di bello. Quindi: palizzata, macchina, campana del
vetro, cespuglio, borsa di una sconosciuta, portone, lattina di Heineken.
Sette; suono il pianoforte nell'aria, soddisfatta.
Qualche giorno fa, ho scommesso che avrei incontrato per
strada almeno quindici donne con borsetta Louis Vuitton (autentica o tarocca).
Ne ho contate ventitré. E' la strada il vero specchio della società, non la
televisione.
Adoro anche andare in biblioteca, anche se tra quelli
scaffali mi sento potentemente ignorante. Ma c'è un buonissimo odore di carta
inchiostrata e mi viene una gran fame di libri, cosi ne prendo sempre due o tre
e esco stringendoli al petto e annusandoli. Poi magari nemmeno li leggo, ma mi
sembra comunque di essere diventata più ricca.
Chi mi conosce dice che non mi sposerò mai, perché sono
troppo strana; a me non pare, sinceramente, anche se piango molto più spesso
degli altri. Piango ascoltando la musica,soprattutto. Piango nelle sere
d'inverno perchè il freddo e il buio mi fanno paura. Oppure quando non parlo
con nessuno per ore. Però mi faccio la doccia ogni giorno e faccio la raccolta
differenziata, come tutti.
E ho uno scatolone pieno di pennarelli e matite, ma questo
non l'ho detto a nessuno. Mi piace toccare i colori. Faccio spesso foto alle
nuvole e al tramonto; il cielo è di una bellezza struggente, ma in pochi ci
fanno caso. Via via le faccio sviluppare e le appendo alla parete in camera; il
muro è tappezzato di sole e cirri.
Poi a volte, così dal nulla, cala il sipario: l'altro giorno
passeggiavo nel parco, aveva appena smesso di piovere. Sentivo una punta di
malinconica insoddisfazione e i miei calzini si stavano inzuppando. Mi sono
ritrovata di fronte ad una grossa pozzanghera; anziché aggirarla e tirare
dritto, mi sono fermata ad osservare il fondo fangoso della pozza. L'acqua
rifletteva gli alberi. Un'immagine grigiogiallognola senza speranza.
I piedi erano bagnati e freddi.
Non riuscivo a superare la dannata pozzanghera, ero
letteralmente paralizzata da schiacciante, immotivata disperazione che mi
nasceva dalla bocca dello stomaco. E mi esplose in un urlo.
Ho urlato in mezzo al parco davanti ad un rigagnolo d'acqua
– chinata in avanti, come stessi vomitando. In molti si erano voltati e
commentavano la scena. Sono corsa via. E la gente continuava a fissare quella
povera cretina che sgambettava. Avevo caldo alle gote e il fiatone e la borsa
continuava a scendermi dalla spalla, ma sentivo di nuovo il sangue scorrere.
Quando sono entrata in casa, ansimavo. E mi vergognavo anche un po' per quello
che avevo fatto. Era una cosa senza senso, però mi sentivo meglio. Ho cominciato
a ridacchiare; ma sì, gli altri mi daranno della matta, ma rideranno anche
loro. “Che scema...” borbottavo, ma sorridevo. Mi sono versata del vino bianco,
sono andata di fronte allo specchio e ho alzato il bicchiere guardandomi negli
occhi: - Un brindisi all'assurdità-.
I miei amici, spero di poterli invitare tutti al mio matrimonio, un giorno. Cin cin.
venerdì 11 gennaio 2013
LETTERA DI SCUSE
Questa non è una semplice lettera. E'
un'opera d'arte, biro su A4, in quanto atto di pentimento sincero.
Io, Marco Bassi, stanco di portare rancore e contrizione stretti in
petto, chiedo ufficialmente scusa a tutti quelli che ho offeso e/o
ferito nell'arco fino ad oggi.
Mi dichiaro colpevole, seppur con
qualche attenuante. Sì, perché ci sono stati dei momenti in cui, vi
confesso, non vivevo, bensì mi lasciavo vivere. Mi accasciavo e
inserivo il pilota automatico, troppo stanco di essere sbattuto tra
alta e bassa marea; mi ascoltavo dire cose che non pensavo senza
avere la forza di tapparmi la bocca. Mi pentivo. Ma poi reiteravo il
reato, puntualmente.
Ero arrabbiato, prendevo a calci il
nostro gatto, che poi mi graffiava quando mi chinavo per riempirgli
la ciotola. Ero arrabbiato, prendevo a pugni l'armadio, andavo a
correre sotto la pioggia, fumavo e fumavo e fumavo. Qualche volta mi
sono inciso il polpaccio con il coltellino svizzero. Non che volessi
farla finita, era un modo come un altro per sfuggire all'apatia. E mi
leccavo sempre il sangue; trovavo strano che fosse salato. Ancora
oggi son convinto che dovrebbe avere il sapore di Nero d'Avola.
Neanche le lacrime hanno il sapore che dovrebbero, comunque.
A volte rifiutavo il mondo, altre
elemosinavo amicizia per scappare dalla solitudine. Ho passato ore
insulse con gente insignificante pur di non stare a casa. Cercavo di
ravvivare i colori bevendo un po' e ridendo forte, ma dopo mi sentivo
più depresso che mai. E mi dicevo “col cazzo, questa è l'ultima
volta che mi faccio 'na serata così...”. Falso. Le ricadute erano
frequenti.
I miei non capivano, nemmeno gli amici
riuscivano a spiegarsi perchè riuscissi a diventare così
maledettamente ringhioso. A lavoro celavo e dissimulavo, perché
ovviamente non potevo pretendere che i miei colleghi sopportassero la
mia personalità schizofrenica e scazzata. Due vite, letteralmente:
una in cui rispondevo cordialmente al telefono e davo del Lei ai
clienti, un'altra in cui mi sotterravo nelle viscere del mio
inconscio e mi rotolavo nella mia sporcizia, con perversa
soddisfazione aggiungo.
Perché?
Perché, dico a voi, perché dopo che
sei stato preso a schiaffi unaduetrequattro volte da Messer Destino,
diventi cinico e allergico ad ogni qualsivoglia forma di buonismo.
Per forza.
Ma un corpo e una mente non possono
contenere due personalità per troppo tempo; ho perso il controllo.
Mi sono ingozzato oltre ogni limite di decenza, sono sprofondato
volontariamente nei bassifondi con ubriaconi e puttane (gli unici
esseri che sentivo affini). Dio che disperazione
accecante......accecante. E il supplizio peggiore era che non
riuscivo a vedere – nemmeno in lontananza- un'uscita.
Ma sono l'unico ad aver provato queste
cose? A voi non è mai successo di fermarvi, colpiti da
un'illuminazione fugace, e chiedervi “ Come ci sono arrivato fin
qui? Ma giusto ieri non avevo diciassette anni? Che è successo?” ?
Comunque sia, progettai una via di fuga
dal pantano. Non potevo rinnegare nessuna delle due parti, io ero –
sono- entrambe: potevo solo fonderle, scartare il marcio da ognuna e
ottenere così una sorta di equilibrio sperimentale. E' stato un
processo lungo, gestazione e parto, ma provavo così tanta pietà per
me stesso che ho avuto la pazienza di aiutarmi a tirarmi su quando
inciampavo.
E così adesso chiedo perdono. Vorrei
scusarmi personalmente con ognuno, con quelli che non ho più
chiamato, con quelli a cui devo ancora dei soldi, con il mio vecchio
gatto. Mi scuso con quel ragazzino con i denti storti con cui uscivo
solo per scroccargli sigarette, con mio fratello per avergli fregato
spiccioli dal portafoglio più e più volte, con la ragazza dai
capelli rossi per aver subito puntato al suo seno burroso ( ci avevo
parlato neanche mezz'ora, ma avevo già due Negroni in corpo...).
Vi stringerei la mano ad uno ad uno,
potessi.
Lo faccio mentalmente, aggiungendo
anche un ossequioso mezzo inchino. Per quelli che possono sentirmi,
mi autodichiaro una Merda e mi dissocio dai miei comportamenti
passati.
Spero che la consapevolezza dell'errore
implichi già una qualche forma di perdono.
In fede,
Marco Bassi
lunedì 7 gennaio 2013
SENILITA'
Dopo le sei e mezza può aspettarsi la
visita del figlio. La messa finisce intorno alle cinque e quaranta,
quindi lei ha tutto il tempo di trascinare le gambe gonfie – due
ciocchi nodosi e pesanti- fino a casa, un tragitto che un paio di
polpacci fasciati nei jeans impiegherebbero non più di dieci minuti
a percorrere. Carolina si gratta le croste attraverso le calze
ortopediche, si segna passando davanti all'altare, strascica i
mocassini sul marmo, si segna di nuovo uscendo. Mentre cammina dice
il rosario; attraversa la strada bofonchiando l'Avemaria.
Il figlio, dicevamo, passa a trovarla
subito dopo il lavoro. Carolina non è che sappia leggere benissimo
l'orologio, ma più o meno riesce a regolarsi con la luce del sole. E
il palinsesto TV. Il primo piano su Carlo Conti annuncia che è quasi
l'ora.
Oggi per suo figlio ha preparato
peperoni ripieni. Tira fuori dal forno il tegame, lo scoperchia e in
uno slancio di pignoleria aggiunge una punta di peperoncino e una
manciata di origano. Poggia la pirofila sul tavolo, si siede
lentamente – tutti i muscoli del coccige cigolano- e aspetta.
Ronzio del frigo.
Caldaia.
Scarico del vicino.
Aspetta.
Televisione del vicino.
Aspetta.
Su tutto regna “l'Eredità”.
Quante parole ha pronunciato Carolina
oggi? Stamane è andata al supermarket; ha comprato verza, fagioli e
marmellata per sé e peperoni per il figlio. Ha incontrato un paio di
conoscenti, e la cassiera riccia ( sempre rossetto sorridente) le ha
dato come al solito il buongiorno, “come va, signora? Suo figlio?”,
le ha chiesto. A messa ha potuto togliere ruggine dalle corde vocali,
le sentiva tremare mentre intonava l' “Osanna nell'alto dei Cieli”.
Il motore di una macchina; Carolina
fissa la porta aspettando il trillo del campanello. Che tace. La
visita non era per lei. Si dondola avanti e indietro sulla sedia di
paglia; è già buio, già buio. La sua cena è pronta, deve solo
scaldarla. Stare a sedere le diventa insopportabile, le musichette e
gli scrosci di applausi della TV le diventano insopportabili, prende
uno strofinaccio e si mette a spolverare con foga. Ricomincia a
recitare il rosario, prega contro quella piccola fitta al cuore e un
improvviso mal di fegato, contro il sapore della bile in bocca e
contro il colore ottuso delle mattonelle del cucinino, un punto
squallido tra beige e giallosenape. Prega e sfrega lo straccio.
TLINNN- TLIIIIIIN.
Le sfugge un singhiozzo.
- Buonasera, mamma- Insieme a
Riccardo entra uno spiffero. -Ma...hai gli occhi lucidi, che è
successo?-.- 'Un è nulla, m'ha dato noia la cipolla... T'ho fatto i peperoni come garbano a te, guarda!-.
- Ah, ma non importava...-. Ecco, ora si allenta i bottoni del cappotto e controlla la posta. - E' arrivata la bolletta della luce..-.
Vorrebbe accarezzarlo ma ormai è un
uomo.
- Vuoi qualcosa da bere? O un
biscotto?-.
Iscriviti a:
Post (Atom)