lunedì 22 ottobre 2012

LA MATITA


Ore diciannove e trenta sotto la pensilina della linea 23C. Otto gradi centigradi circa. Sono stanca. Stamani alle nove, quando sono entrata a lavoro, il sole era diluito in un cielo bianco sporco; ora il mondo è livido. Solo le scintille dai fari che sfrecciano e si riflettono nell'asfalto umido. L'autobus passerà tra nove minuti, un'attesa che mi fa dolere le rotule. Sono stanca. Lo so che l'ho già detto, ma sento nei muscoli e nelle ossa tutto il freddo e la stanchezza di questa terra. Devo trovare un'occupazione per il cervello- se penso al bus, il bus non arriverà mai, una sorta di maleficio: guardo le macchine passare, le biciclette, i motorini. Frugo in borsa, raccolgo in una mano fazzoletti appallottolati e scontrini raggrinziti di caffè e detersivi, li getto nel cestino. Continuo a frugare: agenda ( niente di nuovo da appuntare), una molletta, caramelle balsamiche. Mi ficco in bocca una caramella. Ancora cinque minuti. Mi arrendo, fisso il vuoto. Respiro dentro la sciarpa di lana. Struscio le cosce fasciate nei jeans l'una contro l'altra.
Passa il 19B. Passa il 7. I minuti si dilatano, mi deformano i tendini. La carcassa arancio Ansaldobreda gira l'angolo e si avvicina. Finalmente. Mi siedo incrocio le braccia ficco le mani sotto le ascelle. Mi accartoccio su me stessa. Tre ragazzetti in fondo al bus ( dilatatori e bilancieri alle orecchie, rapa e cresta) sghignazzano e si danno di gomito. Mi guardano. Io butto gli occhi fuori dal finestrino, incapace di affrontare la loro espressione beffarda. Brutta, mi sento. Perché mi fissano? Perché? E poi fuori è così buio. Anche le mie mani stanno diventando buie: ho i geloni e spaccature sulle nocche e le unghie violacee. Mi sento violentata. Vorrei arrivare a casa – per favore autista più presto più presto oh Dio ho bisogno di casa.
Sono sull'orlo delle lacrime.
Davanti a me si siede una bambina con la nonna, appena salite alla fermata di Via D'Azeglio. La bimba ha degli stivaletti in gomma a fiori e un anellino con una coccinella. Mi guarda e mi sorride, e lo fa in modo talmente bello e buffo –ha una deliziosa finestrella, le mancano i denti davanti- che le restituisco un timido sorriso e le faccio ciaociao con la mano screpolata. La piccola ride gorgogliando e io mi sporgo per esserle più vicina e le chiedo come ti chiami?
Lei si tormenta una ciocca di capelli per qualche secondo poi risponde Martina, e io le dico mi piace molto il tuo anello, Martina. Lei allora tira fuori dallo zainetto il suo quaderno e mi fa vedere i suoi disegni e anche il suo astuccio che esplode di pennarelli e matite. Il mio colore preferito è il fucsia, mi dice, e il tuo colore preferito qual'è?
Non ci avevo mai pensato, però rispondo azzurro. Prende su una matita celeste cielo e chiede azzurro così? Sì proprio, le dico. Lei allora me la allunga, te la regalo. Ma no, ti può servire, faccio io tra il commosso e l'imbarazzato. Ma lei ripete te la regalo,e le sue pupille sono fisse sulle mie e quindi tendo la mano e prendo la matita.
La nonna chiama la bambina, devono scendere. Saluta la signora, Martina. Lei allora mi fa ciao con la mano e io mi godo gli ultimi istanti di quel sorriso sdentato.
Il bus riparte; fisso il sedile vuoto sbattendo gli occhi. Un'apparizione? La fata delle corse urbane? Persino i bulletti con le Nike argentate e la risata sguaiata non sembrano più tanto minacciosi. Hanno smesso di spogliarmi con gli occhi. Oppure sono io che ho tirato la tenda. Fatto sta che adesso mi ritrovo ad avere un colore preferito e la relativa matita. Me la avvicino alle narici: sa di legno e pastello e succo di frutta e pongo.
Di soprassalto mi accorgo che ci stiamo accostando alla mia fermata; l'aria pungente di fuori mi morde subito le dita e le guance. Mi infilo le mani in tasca stringendo il regalo nel pugno destro e lisciandolo con il pollice. Mi sembra ancora di avere degli spilli conficcati nelle cosce e le scarpe mi stringono l'alluce valgo e ho un bisogno matto di lavarmi i denti. Ma non ho più così freddo.

domenica 21 ottobre 2012

AMAMI

" Amami, perché, senza te, niente posso, niente sono.

Aime-moi, car, sans toi, rien ne puis, rien ne suis"

Paul Verlaine

domenica 14 ottobre 2012

HO FAME DELLA TUA BOCCA


Ho fame della tua bocca, della tua voce, del tuoi capelli
E vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
Non mi sostiene il pane, l'alba mi sconvolge,
Cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.

Sono affamato del tuo riso che scorre,
Delle tue mani color di furioso granaio,
Ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
Voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.

Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
Il naso sovrano dell'aitante volto,
Voglio mangiare l'ombra fugace delle tue ciglia
E affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
Cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
Come un puma nella solitudine di Quitratúe

Pablo Neruda

mercoledì 10 ottobre 2012

ANOTHER BRICK IN THE WALL


Manuel doveva passare a prendere Davide alle dieci. Sono le dieci e ventitré, Davide è appoggiato ad un cancello a fumare e imprecare tra i denti quando la Yaris bianca di Manuel inchioda davanti a lui. Davide sale sbattendo la portiera. - Sei in ritardo, cazzone-.
Manuel sbuffa mettendo in moto; l'auto si avvia ansimando, a scatti.
- Devi dare un po' di gas quando lasci la frizione....Come ti aspetti che riparta la macchina sennò?-.
- Credevo che ci fosse un'entità superiore che la facesse andare anche senza acceleratore...-.
- Non c'è nessuna entità superiore che ti aiuterà a partire....nessun essere lassù...-. Davide aspira una boccata di fumo strizzando gli occhi. - Ognuno è Dio di sé stesso-.
Manuel rimane in silenzio. Aspetta la prossima mossa. Davide si china e attacca l'i-Pod alla presa USB dell'autoradio. - Lettera?-.
- Emme-.
Play: attacca Miles Davis.
Manuel guida in silenzio, Davide finisce la sigaretta e prende una chiamata. Riattacca con un “fanculo”. Sta lavorando ad un progetto con dei colleghi di università che lo fanno bestemmiare sonoramente. Detesta la passiva incompetenza e ignoranza dei parvenu che proseguono la carriera accademica per inerzia.
- Be', ma se ci devi aver a che fare solo per 'sto lavoro, sopportali e basta. Che sarà mai? Non puoi sempre pretendere che tutti rientrino nei tuoi standard che, francamente, sono anche abbastanza selettivi.... devi scendere a patti con il resto del mondo, se vuoi vivere in società-. Manuel è pragmatico e diplomaticamente tollerante; parcheggia nella solita piazzola isolata sul fianco della collina.
- Sai cosa dice Tyler Durden in Fight Club?-.
- Gesù....-.
Davide stappa una Tennent's. - “ Metterti le piume nel culo non fa di te una gallina”-.
- La devi piantare con queste continue citazioni...-.
-Sai cosa significa, vero?-.
- …..-.
Motley Crue.
- Non puoi fingere di essere come gli altri se sei diverso, anche se vivi in mezzo a loro. O meglio, non puoi diventare come gli altri solo perchè ci entri in contatto-.
- Sì, occhei, ma non puoi basarti sulle citazioni, portami esempi concreti..-.
- Il cinema è arte. L'arte rispecchia la vita. Diresti mai che la vita non è concreta?-. Davide beve una lunga schiumosa sorsata di birra e si pulisce la bocca alla t-shirt. - E poi viviamo nell'era di The Sims, della Wii, di Mastrolindo. E' la sagra del fittizio, dell'ologramma, del manichino-.
Tacciono tutti e due per qualche minuto. Risucchio di bocca che si stacca dal collo della bottiglia e liquido che viene deglutito. Manuel sa che Davide ha ragione ma non vuole credere che sia proprio tutto da buttare. Da bambino se l'era goduta un sacco a giocare con le Micro Machines e a correre fino a che la salivazione sballava e doveva sputare per terra, e pane e salame era così buono – e lo è tuttora-, e poi alle medie i pomeriggi passati a scoprire il punk e il metal... Non c'è nulla che si salvi di tutto questo?
Mudhoney.
- Hai il potere di farmi salire l'angoscia, tu, lo sai?-. Davide tira fuori il tabacco e si rolla un drum.
- Ormai hai varcato la soglia della beata ignoranza, ne sei fuori, e non certo per causa mia... E non puoi tornare indietro, pillola rossa o pillola blu, come in Matrix-.
- Tu e le tue citazioni del cazzo...-.
Quando toccano certi argomenti, è difficile poi che non ne escano malconci: è una china ripida da risalire, e allora si succhia fumo dal filtro come fosse latte materno dalla mammella. Uno ha bisogno di sicurezze, perdio, o quantomeno di palliativi.
- ...e quindi, secondo te, qual'è la soluzione?-. Davide getta il mozzicone a terra, e dopo mezz'ora di serrato botta e risposta anche lui si sente come quel mozzicone, spento consumato calpestato. Poco più di cenere e saliva.
-Non c'è soluzione. Non possiamo trovarla, la soluzione, tu ed io con la nostra birra e la nostra musica. Ma la consapevolezza è già una gran cosa-. Manuel scende dalla macchina e scompare tra i cespugli per urinare. Sul posto del passeggero aleggia una scia di profumo alla mirra. Dal buio frusciante delle foglie urla – EHY, CAMBIA LETTERA! METTI LA PI, COSI' CI SPARIAMO PRODIGY E PINK FLOYD!-.
Oh, sì: Breathe , breathe in the air ,don't be afraid to care ….

domenica 7 ottobre 2012

UOMINI E NO



“Giulia,
ti lascio perchè ormai la chitarra mi da più orgasmi del tuo corpo. Perchè non ho più voglia di baciarti i capelli. Perchè ti vesti come una liceale arrapata. Ti lascio con un biglietto perchè così ti incazzerai ancora di più con me, e magari sarà tutto più facile.
Senza rancore.”

Senza rancore, non credo. Ma ci saranno le sue amiche a consolarla e a darle man forte nel sputarmi veleno addosso. Non vedono l'ora di andarci giù pesante con lo stronzo di turno. Idiote: si mettono le ciglia finte per andare a ballare, abbinano la borsa con le scarpe e tutto quello che rimediano è una sveltina in macchina.
Ho lasciato il biglietto nella cassetta della posta di Giulia, poi mi sono allontanato pigiando forte sull'acceleratore. Non credo che tornerò subito a casa. Continuerò a guidare, sgusciando per le strade come la biglia argentata di un flipper ( ma ce ne sono ancora nei bar o esistono solo nel pacchetto giochi di Windows?). Tengo i finestrini abbassati ed entrano fiotti d'aria fresca che salgono su per i tubi delle narici e penetrano direttamente nella scatola cranica.
L'ho lasciata con un biglietto perchè ultimamente quando le sfioravo la pelle (aranciobruna grazie a sedute settimanali al solarium) era come accarezzare una Barbie; anzi, mi ricordo che intorno ai dieci-undici anni guardando quelle curve plastificate quasi mi eccitavo. Il suo corpo invece non rispondeva più allo stimolo delle mie dita. Oppure erano loro ad essere diventate sorde ai suoi richiami. Fatto sta che godo solo quando imbraccio una chitarra e mi arrampico su e giù per quelle sei corde, e lì le mie dita saltano pizzicano scivolano e vibrano assieme alle corde della mia Telecaster. Quando trovo il riff giusto, è l'estasi.
Di recente succedeva  che io me ne stavo a suonare con lo stesso trasporto di Santa Teresa d' Avila, mezzo fumato, a inseguire melodie visionarie. Lei si tingeva le unghie guardando Barbara D'Urso. E rideva di me; rideva se mi commuovevo ascoltando Tenco o De Andrè, perchè mi intestardivo a provare e riprovare un passaggio finché non mi usciva perfetto. Rideva  scoprendo i denti sbiancati e strizzando gli occhi da cerbiatta. Ed era una cosa che mi faceva davvero incazzare. E qualche settimana fa le ho detto che, tra i due, a me la cretina sembrava lei, che ogni sera si impiastra le cosce di crema anticellulite e che quando ha fame si ingozza di barrette dietetiche.
Allora lei ha cominciato a lacrimare, le spalle scosse dai singhiozzi, le tette strizzate nella t-shirt che sballonzolavano su e giù, il labbro tremulo. Di tanto in tanto tirava su col naso grugnendo. Ed era talmente ridicola che, stavolta, le sono scoppiato a ridere in faccia io. E la cosa ovviamente l'ha mandata in bestia.
Ho lasciato lei e la mia famiglia. Me ne sono andato di casa circa un mese fa. I miei sono gente semplice con appena la terza media. A mia mamma voglio bene; come si fa a non voler bene ad una signora che veste sempre a fiori e odora di basilico? Quando le ho detto che suonavo per locali con un gruppo, mi ha raccontato entusiasta di come, da ragazza, fosse invaghita di Mal e del suo ammaliante intercalare anglofono. So sexy. Poi si è messa a cantare Parlami d’amore Mariù e io l’ho afferrata e le ho fatto fare il casqué.
Di mio padre ho sempre diffidato un po’: viso paonazzo e barba ispida, fa il muratore e lavora sodo. Da bambino dovevo abbracciarlo quando rientrava a casa; mamma ci diceva che questo lo faceva contento, quindi bisognava corrergli incontro quando varcava l'uscio. Però lui, pover'uomo, puzzava di sudore sigaro e sudiciume e i miei abbracci non duravano più di qualche secondo. C'era un che di selvatico nel babbo, anche se si è sempre dimostrato un bonaccione. Fino a quando non ha scoperto che mio fratello ad un bel paio di tette preferisce pettorali scolpiti e tartaruga.
Ha cominciato a prenderlo a schiaffi urlando “Frocio! Frocio schifoso! A me doveva capitare....”. Il naso di Giacomo prese a sanguinare, la mano tozza del babbo continuava a menare sonori ceffoni – un cinghiale che si scaglia contro un capretto. Giacomo era troppo rintronato dalle percosse per fare resistenza, allora mi sono lanciato io su quell'uomo schiumante di rabbia, cercando di farlo smettere e di ammansirlo. Non facile. Anche perché la circonferenza di un suo bicipite corrisponde grossomodo a quella di una mia coscia. Alla fine riuscii a mettermi fra i due, facendo da scudo a mio fratello. Sentivo le ascelle sguazzare nel sudore. E non volevo credere che la bestia che ruggiva “Checca di merda!” davanti a noi fosse nostro padre.
Avevo dei soldi da parte, e avevo un lavoro: cercai un appartamento e lasciai casa mia portandomi dietro Giacomo e il suo viso pesto.
La prima sera nella nostra nuova sistemazione sedevamo entrambi in silenzio su un divano che ci era ancora sconosciuto e, in qualche modo, ostile. Giacomo sospirò e si tastò il labbro su cui aveva un taglio profondo violaprugna.
-        Ma come ha fatto?-, chiesi indicando con la testa la ferita.
- Preso in pieno con la fede...Gesù se ha fatto male!-. Si bagnò la spaccatura con la lingua e tornò a tacere. Mi avvicinai e lo abbracciai – Frocetto del cazzo...-. Gli scompigliai i capelli tra i suoi risolini striduli. Si liberò dalla mia presa, ridendo, e si pettinò con le dita. – Oh, Dio, ci vorrebbe una megavaschetta di gelato...-.
-         Sei proprio una checca...ma quale gelato, birra,perdio, BIRRA! E’ la birra che bevono i veri uomini!-. Tuttavia mi infilai la giacca di jeans e scesi dai pakistani sotto casa per comprare una confezione di gelato da un kilo.
-         Mi si stanno congelando le dita per colpa tua, signorina-. Richiusi la porta con un calcio.
-         Ma non eri andato a comprare le sigarette?-. Sotto i lividi ancora gonfi, a Giacomo brillavano gli occhi di nuovo.
-         Vai a prendere due tazze: ci sfondiamo di nocciola e stracciatella. E guardiamo un film. Un film da uomini, però; Bridget Jones te lo vedi con le tue amiche....-.
Scelsi Per un pugno di dollari. Polverizzammo il chilo di gelato. Ricordo che, mentre io avevo gli occhi chiusi per assaporare la colonna sonora di Morricone. Giacomo mi bisbigliò – Ti voglio bene....grazie-. Mi girai di scatto verso di lui, ma si era già ficcato in bocca una cucchiaiata di nocciola e fissava lo schermo.
Forse non avrei dovuto lasciarla con un biglietto, forse non è corretto, non è giusto, rifletto. Metto la freccia a sinistra, scalo la marcia e giro.
Ma d’altronde, se il mondo fosse giusto il vecchio Arsenio Lupin non si lascerebbe sedurre e abbandonare da quelle maggiorate di Margot e Fujiko ogni volta; le spedirebbe a fare le mondine in Cina e cari saluti. Ma tant’è.

mercoledì 3 ottobre 2012

SE IL PRETE VA IN VACANZA

-Sveglia...-. Alito al caffè e delicate carezze sui riccioli.
Bianca apre gli occhi e si gira verso la mamma. Si lascia sollevare e strappare dall'involucro caldo delle coperte; sbadiglia spalancando la bocca senza ritegno e scoprendo due finestrelle da denti da latte.
Oggi è domenica, ed è un giorno strano, mamma e babbo non vanno a lavoro e lei non deve andare a scuola. Anche i cartoni alla TV non sono gli stessi delle altre mattine. A Bianca la domenica non dispiace: può fare colazione con calma e guardare una puntata di Sailor Moon per intero mentre aspetta che le palline di cioccolato affoghino nel latte oppure mentre tuffa i biscotti e li ripesca solo quando sono spappolati.
Poi la mamma le mette un vestito, o una gonna con la camicetta, e le calze ricamate. Stamani Bianca vuole mettersi il suo gommino con la fragola; la mamma allora le raccoglie i capelli in una coda, uno zampillo di boccoli. Quando loro due e il papà sono pronti, salgono in macchina vanno in chiesa, perchè – così dice sempre la mamma- la domenica si va alla messa.
In chiesa le luci sono spente, ci sono solo tozze candele bianche accese, e poi c'è un odore stranissimo, un odore che non si sente in nessun altro luogo e che un po' stordisce. Bianca siede tra mamma e babbo. Non arriva a toccare il pavimento con i piedi, perciò durante la funzione sgambetta guardando orgogliosa le sue ballerine di vernice lucida. Torce le gambe in modo da far convergere le punte dei piedi; ora Destra può parlare con Sinistra. Chiacchierano amabilmente – Bianca borbotta il dialogo con due voci diverse- e alla fine Destra tocca Sinistra e si scambiano un bacetto timido mentre il prete comincia a recitare il Padre Nostro.
Poi alza gli occhi e guarda gli angeli e le nuvole dipinte sulle pareti, e pensa che siano davvero belli, e anche i gigli bianchi sull'altare sono belli, e tutte le signore che Bianca riesce a vedere sono vestite bene e truccate. Anche Bianca quando sarà grande si truccherà e avrà i capelli lunghi e prenderà il caffè come la sua mamma.
Dopo la messa vanno sempre a pranzo dalla nonna; nonna Adele le prepara le patatine fritte e le fa trovare le rotelle di liquirizia e le permette di giocare con tutti i ninnoli che tiene in salotto.
Però poi un giorno Bianca vede la mamma stesa sul divano; pensa che stia dormendo, ma quando le si avvicina vede che sta piangendo. Che strano, la mamma non lo fa mai, non l'ha mai fatto. Cosa vuol dire quando la mamma piange?
Il papà prende Bianca sulle ginocchia e le dice che la nonna, quella nonna che le compra la liquirizia, stava tanto male e quindi è andata all'ospedale, ma stava troppo male e il suo cuore era vecchio e stanco.... Il giorno dopo, anche se non è domenica, vanno in chiesa: sono tutti e tre vestiti di nero perché, spiega il babbo, è così che ci si veste quando qualcuno se ne va.
Bianca non capisce: tutti piangono e abbracciano lei e la mamma, figure nere con facce tristi e tanti fiori e in chiesa quell'odore è ancora più forte del solito. La bambina è confusa, è tutto così desolato e malinconico e disperato che comincia a piangere anche lei, singhiozzi e muco. Ha paura. Piange talmente tanto che le entra mal di testa e non ha più fiato. Persone, sconosciuti stringono la mano a sua madre e danno un buffetto sulla guancia alla bambina. Alcuni non parlano e portano gli occhiali da sole; altri dicono “mi dispiace”, “fatti forza” e un'altra parola che Bianca non conosce e che finisce in “- anze”. Fiorenza, la loro vicina di pianerottolo, ha la faccia biancofarina e il naso rosso e il singhiozzo – Oh...oh...pove-ra donnna...hic! App-pena sessssantanni...hic!-. A Bianca scappa uno sbuffo di risata lacrimosa. Quando arrivano a casa – casa, finalmente casa!- mamma le prepara latte caldo e miele, la abbraccia e rimane abbracciata con lei sul divano a guardare la TV.
I giorni seguenti la mamma è ancora triste e non va a lavoro e la domenica mattina Bianca si stupisce perché anziché un abitino mamma le fa indossare una tuta per andare al parco.
- E alla messa, non si va?-.
- No. oggi no-.
Però non vanno nemmeno la domenica seguente, e neanche quella dopo ancora.
- Mamma, ma non ci andiamo più in chiesa?-, chiede Bianca.
- No..-.
- Perché?-.
- Perché non c'è più la messa, Don Luca è andato in vacanza-.
Bianca non risponde, è tutto così diverso. Poi domanda, illuminata – Ma Don Luca quando torna, dalle vacanze?-.
- Ancora, non lo so, pulcino, non lo so proprio...forse, se là sta meglio, non torna più. Chissà-.