Ore diciannove e trenta sotto la
pensilina della linea 23C. Otto gradi centigradi circa. Sono stanca.
Stamani alle nove, quando sono entrata a lavoro, il sole era diluito
in un cielo bianco sporco; ora il mondo è livido. Solo le scintille
dai fari che sfrecciano e si riflettono nell'asfalto umido. L'autobus
passerà tra nove minuti, un'attesa che mi fa dolere le rotule. Sono
stanca. Lo so che l'ho già detto, ma sento nei muscoli e nelle ossa
tutto il freddo e la stanchezza di questa terra. Devo trovare
un'occupazione per il cervello- se penso al bus, il bus non arriverà
mai, una sorta di maleficio: guardo le macchine passare, le
biciclette, i motorini. Frugo in borsa, raccolgo in una mano
fazzoletti appallottolati e scontrini raggrinziti di caffè e
detersivi, li getto nel cestino. Continuo a frugare: agenda ( niente
di nuovo da appuntare), una molletta, caramelle balsamiche. Mi ficco
in bocca una caramella. Ancora cinque minuti. Mi arrendo, fisso il
vuoto. Respiro dentro la sciarpa di lana. Struscio le cosce fasciate
nei jeans l'una contro l'altra.
Passa il 19B. Passa il 7. I minuti si
dilatano, mi deformano i tendini. La carcassa arancio Ansaldobreda
gira l'angolo e si avvicina. Finalmente. Mi siedo incrocio le braccia
ficco le mani sotto le ascelle. Mi accartoccio su me stessa. Tre
ragazzetti in fondo al bus ( dilatatori e bilancieri alle orecchie,
rapa e cresta) sghignazzano e si danno di gomito. Mi guardano. Io
butto gli occhi fuori dal finestrino, incapace di affrontare la loro
espressione beffarda. Brutta, mi sento. Perché mi fissano? Perché?
E poi fuori è così buio. Anche le mie mani stanno diventando buie:
ho i geloni e spaccature sulle nocche e le unghie violacee. Mi sento
violentata. Vorrei arrivare a casa – per favore autista più presto
più presto oh Dio ho bisogno di casa.
Sono sull'orlo delle lacrime.
Davanti a me si siede una bambina con
la nonna, appena salite alla fermata di Via D'Azeglio. La bimba ha
degli stivaletti in gomma a fiori e un anellino con una coccinella.
Mi guarda e mi sorride, e lo fa in modo talmente bello e buffo –ha
una deliziosa finestrella, le mancano i denti davanti- che le
restituisco un timido sorriso e le faccio ciaociao con la mano
screpolata. La piccola ride gorgogliando e io mi sporgo per esserle
più vicina e le chiedo come ti chiami?
Lei si tormenta una ciocca di capelli
per qualche secondo poi risponde Martina, e io le dico mi piace molto
il tuo anello, Martina. Lei allora tira fuori dallo zainetto il suo
quaderno e mi fa vedere i suoi disegni e anche il suo astuccio che
esplode di pennarelli e matite. Il mio colore preferito è il fucsia,
mi dice, e il tuo colore preferito qual'è?
Non ci avevo mai pensato, però
rispondo azzurro. Prende su una matita celeste cielo e chiede azzurro
così? Sì proprio, le dico. Lei allora me la allunga, te la regalo.
Ma no, ti può servire, faccio io tra il commosso e l'imbarazzato. Ma
lei ripete te la regalo,e le sue pupille sono fisse sulle mie e
quindi tendo la mano e prendo la matita.
La nonna chiama la bambina, devono
scendere. Saluta la signora, Martina. Lei allora mi fa ciao con la
mano e io mi godo gli ultimi istanti di quel sorriso sdentato.
Il bus riparte; fisso il sedile vuoto
sbattendo gli occhi. Un'apparizione? La fata delle corse urbane?
Persino i bulletti con le Nike argentate e la risata sguaiata non
sembrano più tanto minacciosi. Hanno smesso di spogliarmi con gli
occhi. Oppure sono io che ho tirato la tenda. Fatto sta che adesso mi
ritrovo ad avere un colore preferito e la relativa matita. Me la
avvicino alle narici: sa di legno e pastello e succo di frutta e
pongo.
Di soprassalto mi accorgo che ci stiamo
accostando alla mia fermata; l'aria pungente di fuori mi morde subito
le dita e le guance. Mi infilo le mani in tasca stringendo il regalo
nel pugno destro e lisciandolo con il pollice. Mi sembra ancora di
avere degli spilli conficcati nelle cosce e le scarpe mi stringono
l'alluce valgo e ho un bisogno matto di lavarmi i denti. Ma non ho
più così freddo.