sabato 9 novembre 2013

LIVE FAST, DIE YOUNG - Ritratto d'artista

Matteo sembra appartenere ad un altro pianeta. Vive in una dimensione fatta di leggi proprie, in cui lo scandire del tempo e il passare delle ore sono relative e completamente ribaltate. E' una di quelle rare persone che usa ogni secondo per fare qualcosa; lui non guarda la televisione, gli mette ansia. “C'è così tanto da fare, e così poco tempo, figurati se mi metto sul divano a guardare la TV con tutto quello che c'è da fare....”.
Fare” vuol dire per lui seguire la Musa ispiratrice; si cimenta in qualsiasi cosa, ma ha l'intelligenza di non autodefinirsi artista.
Lavora soprattutto di notte, credo per via dei cinque sei caffè che beve regolarmente ogni giorno dai tempi del liceo. Lui sostiene invece che lo fa per beneficiare degli stimoli stellari e delle vibrazioni lunari. Ha una sua teoria in proposito, ma ha le sue teorie praticamente su tutto. Ad esempio, ha stilato un decalogo del perché gli uomini sono peggiori delle donne, ossia: gli uomini sputano per terra, pisciano dove capita, non si fanno scrupoli a fissare sederi minorenni, ecc ecc. Per questa lista è stato tacciato di omosessualità dal resto del branco, e per un paio di sere è stato “oscaruaild de' mi cojoni”. Lui però non se l'è presa. Ha difeso la sua eterosessualità rimorchiando una rossa al Sesto Senso e limonandoci duro nel parcheggio.
Poi parla spesso per sigle e acronimi; ad esempio, in questo periodo sta progettando di mettere su un orticello in terrazzo, perché “avere un orto, anche piccolo, ma sai, con il basilico e il peperoncino e magari due melanzane....avere un orto è una CVI. Una Cosa Veramente Importante”.
Oppure Tina qualche giorno fa raccontava che stava aspettando una telefonata importante e si portava appresso il cellulare dappertutto, ci dormiva accanto e cose così. Al che Matteo scrolla le spalle e tutto il suo commento è “QMTLA”. “Checcazzodici?”. “Quando Meno Te Lo Aspetti.” “Mavvaffa, intellettuale da aperitivo.....”.
Il vero problema di Matteo è che soffre di emorroidi, una grana non indifferente (tra l'altro non credo che la quantità di caffeina che assume quotidianamente lo aiuti). Una sera eravamo al pub e all'improvviso è scomparso; l'ho ritrovato di fronte al bagno che si contorceva contro il muro a gambe strette. Sudava ed era visibilmente a disagio. Evitava di guardarmi in faccia, cosa stranissima per lui, dato che fissa la gente dritta negli occhi per il gusto di sfidarla a reggere il suo sguardo. Mi sono avvicinato alla porta del bagno, ho bussato urlando di sbrigarsi; pochi secondi dopo sono uscite due tipe dal tacco aggressivo e smartphone rovente. Ho fatto cenno a Matteo di entrare. Lui dopo mi ha raccontato del suo disturbo, ma era già riuscito a recuperare quel minimo di folle baldanza che faceva sembrare la cosa quasi epica.
La verità è che io starei a sentirlo per ore, lo seguirei in silenzio per i sentieri della sua mente infinita per vedere fin dove si spingono l'intelletto e l'immaginazione umana. A volte, quando ci vediamo, non c'è nemmeno bisogno che io parli – non mi piace parlare, non mi ritengo così interessante: Matteo è il sole, che brilla di luce propria. Io vivo della sua luce riflessa.

giovedì 3 ottobre 2013

CANZONE D'AMORE DI UNA RAGAZZA FOLLE

"Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore;
Schiudo le palpebre e tutto rinasce.
(Sono convinta di averti inventato.)

Le stelle escon danzando in blu e rosso,
Oscurità arbitraria entra al galoppo:
Io chiudo gli occhi e tutto il mondo muore.

Sognai che mi stregavi nel mio letto
M’incantavi e baciavi alla follia.
(Sono convinta di averti inventato.)"

Sylvia Plath

martedì 24 settembre 2013

INVETTIVA - SULLE CONVENZIONI

Ma poi, chi l'ha deciso che la rosa è la regina dei fiori? Perchè si regalano solo mazzi di rose?
A me le rose neanche piacciono. Sono snob. Preferisco i girasoli.
Le convenzioni sono la culla dell'ozio intellettivo. Nonchè la causa dello sterminio indiscriminato di topi e ragni.
Definisci "bello".
Definisci "pazzo".
Definisci "ti amo".
Le parole sono importanti. O quantomeno dovrebbero esserlo. Sono invece usate con una leggerezza indecente, scandalosa - come se al bar si pagasse un caffé con banconote da cento.
Stiamo assistendo ad un'inflazione semantica senza precedenti. Sono indignata. Il mio unico credo è sempre stato il potere del linguaggio - la nobile idea che la vera essenza emerga tramite la parola. Illusioni d'antan. Cazzate, diremmo oggi.
Si parla per parlare. Per riempire vuoti, colmare lacune, ammobiliare silenzi.
La bugia più diffusa è "ti voglio bene".
Propongo una petizione per riaffermare l'importanza delle scelte linguistiche e dell'accuratezza lessicale.
"Mi sono messo in testa una cosa", ad esempio, non è esatto; il più delle volte è la cosa che ti penetra nella mente, felpata e discreta, e lì si installa, nidifica, espandendosi fino a diventare un'ossessione. E' un processo passivo.
Odio forme di saluto come "ciao cara!" e "bella, come stai?" e frasi fatte del tipo "mi annoio da morire": ma tu l'hai mai provato l'angosciante
gelido
vuoto causato da una perdita?
Hai mai visto un'anima spegnersi - inesorabilmente- giorno per giorno?
Non dire cose che non senti.
Non dire cose che non pensi.
Perché, checché ti vogliano far credere, noi siamo quello che diciamo.

venerdì 26 luglio 2013

ON THE ROAD

" A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che  mi interessano, perchè le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbedigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d'artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno " Oooooh!". Come li chiamavano, questi ragazzi, nella Germania di Goethe?"

" L'aria era calda e dolce. Avrei voluto andare a prendere di nuovo Rita e dirle molte altre cose, e far veramente all'amore con lei, questa volta, e calmare la sua paura degli uomini. Ragazzi e ragazze hanno rapporti così tristi in America; snobismo vuole che cedano immediatamente al sesso senza adeguate parole preliminari. Non parole di corteggiamento, ma sincera apertura dell'anima, perché la vita è sacra e ogni momento prezioso."

" Avevo comprato il biglietto e stavo aspettando l'autobus per LA quando all'improvviso mi passò davanti una ragazza messicana in pantaloni, assolutamente deliziosa. (....) Ebbi una fitta al cuore come tutte le volte che vedevo una ragazza che amavo andare nella direzione opposta alla mia in questo mondo troppo grande. L'altoparlante annunciò l'autobus per LA. Presi la mia borsa e salii, e chi trovai seduta dentro tutta sola se non la ragazza messicana? Mi lasciai cadere sul sedile di fronte al suo e cominciai a far lavorare il cervello. Mi sentivo così solo, così triste, così stanco, così tremante, così spezzato, così distrutto che raccolsi tutto il coraggio che avevo, il coraggio necessario ad avvicinare una ragazza sconosciuta, e agii. E anche così passai cinque minuti a battermi le cosce al buio mentre l'autobus partiva giù per la strada.
Devi farlo, devi o morirai! Brutto cretino, parlale! Cosa ti succede? Non sei stanco di stare solo?"

JACK KEROUAC, ON THE ROAD

giovedì 30 maggio 2013

PER UN PUGNO DI DOLLARI - parte III

Cagna, cagna, sono una cagna.
Piango a intermittenza tutto il giorno; nel rintronamento etilico non volevo che Stefano si alzasse per andare a lavoro. Gli ho preso la mano e cercavo di tirarlo giù – torna a letto...stai qua con me...-
- Dai, Sandra, mi fai fare tardi-.
- Per favore...-.
Si è liberato della mia presa con uno strattone; volevo andargli a preparare il caffè, ma non sono riuscita a raccogliere le forze per mettermi in piedi. Mi sentivo le membra burrose incollate al materasso.
Cagna, cagna schifosa.
Ho perso la mia innocenza nelle pieghe di un giorno qualunque. Mi è scivolata di tasca a l'ho persa, così come si smarriscono accendini e forcine per capelli. Piccoli oggetti che cacci distrattamente in borsa e che un bel giorno spariscono, come inghiottiti misteriosamente da un buco nero. E puoi frugare e ravanare e svuotare la borsetta finché vuoi; semplicemente, non ci sono più.
Cagna. Cagna, sei.
Sono impantanata in una melma di apatia. Riempio la vasca e mi faccio un bagno. Fisso la deformata nudità rosea del mio corpo; sul pelo dell'acqua brillano rivoli di sole. Mi ricordo di quando, da piccola, giocavo ad essere la Sirenetta mentre mi lavavo. Ai tempi del liceo invece portavo lo stereo in bagno e stavo a mollo ascoltando i Verdena e i Subsonica; immaginavo come sarei stata da grande. Be', ora sono grande: bella merda.
Rimango in acqua finché la pelle delle dita non diventa incartapecorita, rugosa e bianchiccia. Mi asciugo con calma, con molta calma, in slow motion praticamente.
Bene, ora sono vestita. In piedi in mezzo alla stanza a fissare lo specchio appannato. Quindi?


Quindi?



TRRRRRRRRIIIIIIIIINN.
Quindi suonano al campanello.
E' Marta. Marta che si soffia il naso strombazzando. - Disturbo?-. Le sfugge un singhiozzo.
La faccio entrare, le preparo un tè. Mi racconta che con Federico va male, proprio male, rischia di andare tutto a puttane, dice, e per nessun motivo in particolare. - Sai, è un momento di stallo del cazzo,e non sai se stai insieme per abitudine o perché c'è ancora qualcosa.... Ultimamente litighiamo per tutto, Cristo è snervante. Dico cose che non penso per provocarlo, poi me ne pento, ma lui nel frattempo si è incazzato....-. Sospira e beve un rumoroso sorso di tè. - Non so come ci siamo entrati in questo tunnel e non so se ne usciremo...non so cosa fare. Non ci riconosco più-.
Fissa la tazza con la disperata impotenza di chi non riesce a credere che la propria esistenza si sia trasformata in un cumulo di macerie, di chi si ritrova intrappolato nel più nero degli incubi – e non c'è risveglio che ti faccia scappare.
Io, per quanto sinceramente dispiaciuta per lei, devo ammettere che non riesco a concentrarmi del tutto su quello che dice. ( Cagna. Brutta cagna). La ascolto, sento le sue parole, ma non sempre riesco ad afferrarne il significato. Sfiorano appena il mio timpano e scappano via come conigli impauriti; poi metto a fuoco di nuovo e mi accorgo di aver perso dei pezzi.
- Tipo, l'altra sera abbiamo avuto una discussione per una cretinata, una cosa da nulla, potevamo benissimo evitare. Ma poi lui ha cominciato a rinfacciarmi roba di mesi o anni fa, e 'sta cosa proprio non la sopporto, e allora gli ho detto che è un passivo fatalista del cazzo, perché non prende mai una decisione che sia una, si lascia scivolare tutto addosso....-. Blablablablablablablablabla. Rientro nel mio stato catatonico, mi viene in mente che probabilmente il reggiseno sta ancora nella borsa, mi riprendo d'un tratto dal mio stato di narcolessia. Alzo gli occhi su Marta; mi sento un po' cattiva per non riuscire a darle la mia completa attenzione. Ma, cara, io non sto meglio di te.
Ora sta zitta; i suoi occhi piangono, la pelle pallida è tirata sugli zigomi. Un altro singhiozzo.D'improvviso provo profonda pietà per tutte e due, per le nostre miserie. La abbraccio, lei si costringe a sorridere e, in uno slancio di empatia, sono sul punto di raccontarle di Riccardo. Ma mi trattengo: è una faccenda troppo, davvero troppo sporca. La vergogna lega la lingua. Mi limito a tenerle la mano e a offrirle dei biscotti.
- Dai....ti lascio in pace, ti ho rubato anche troppo tempo-.
- Ma va', cosa dici....le amiche servono a questo, no?-.
La realtà è che mi aggrappo alla sua presenza perché il pensiero di rimanere sola mi atterrisce. Oggi la mia persona mi disgusta, non so come farò a trascorrere il resto della giornata in sua compagnia. Sono come un bambino che vuole dormire con la luce accesa perché ha paura del buio. D'altronde, la cosa peggiore che ti possa capitare è diventare prigioniero del tuo stesso cervello: non esiste fortezza più inespugnabile. E i miei carcerieri continuano a ridere e a darmi della puttana.

giovedì 4 aprile 2013

FATAL ERROR

Vivevo in un bell'appartamento in una traversa di Via Zamboni, in pieno centro città e a due passi dall'università. In camera avevo appeso riproduzioni di Magritte e Schiele, andavo d'accordo con i miei coinquilini e l'affitto era onesto. Però tre mesi fa ho dovuto lasciare la casa.
La mia compagna di stanza si chiamava Greta; era sottile e silenziosa come un'ombra. Sempre curva su tomi di filologia e letteratura. All'inizio cercavo di non fare rumore quando stavo in camera con lei, per non disturbarla, e tra me pensavo che fosse un po' noiosa. Nozionismo sterile, ecco.
Poi una sera mi ha chiesto dei miei poster e siamo finite a parlare del cinema neorealista e dell'animazione giapponese: se ne intendeva davvero. E aveva un modo delizioso di raccontare.
Prendemmo l'abitudine di guardarci un paio di film a settimana, noleggiavamo il DVD alla biblioteca e sceglievamo una volta per uno. Bevevamo tè o birra. Imparai a riconoscere il suo profumo, sedendo per ore accanto a lei.
Spesso però la sera andava dal suo ragazzo e non tornava a dormire. Non la rivedevo che il pomeriggio del giorno dopo; rientravo a casa da lezione e la trovavo seduta alla scrivania con le sue dispense e l'arcobaleno di evidenziatori. Mi mettevo a studiare con lei; mi resi conto che la sua presenza mi rassicurava, con i suoi modi pacati e il suo astuccio pieno di penne colorate. Aveva un'aura positiva e luminosa, io invece sono inquieta per natura, sempre sbattuta tra le maree della vita. Le parlavo dei miei tormenti interiori appoggiata alla finestra aperta, fumando una Camel dietro l'altra; lei mi ascoltava fissandomi, perfettamente immobile, e dandomi tutta la sua attenzione. La foga e la frustrazione che mettevo nelle parole mi faceva tremare le mani. Mi sentivo così sporca al suo confronto. Lei indossava vestitini a fiori e gonne a pieghe che le stavano d'incanto, e si appuntava i capelli lunghi con un fermaglio di legno. “La invidio”, pensai all'inizio. Volevo essere anch'io una fata leggiadra, invece ero un nanetto goffo.
Ma il piacere che provavo nel guardarla, mi resi conto, andava al di là della semplice gelosia femminile o ammirazione. Notavo come un abito le scendesse bene sui fianchi e quanto l'ovale del suo viso fosse aggraziato. Ero dispiaciuta quando non la trovavo a casa. Le compravo dei regalini, un bracciale o un libro usato, per farla contenta.
Una sera la aiutai a piastrarsi i capelli, e mentre pettinavo le lunghe ciocche, sentivo le dita che mi prudevano dal desiderio di accarezzarla. Era di una bellezza radiosa, disarmante.
Mi ero innamorata della mia coinquilina.
Ne presi atto senza fare nulla; non potevo fare nulla. Lei aveva il suo Luca e stravedeva per lui. L'idea che anche lei, da un giorno all'altro, si scoprisse bisessuale per stare con me era quantomai ridicola. Impossibile.
Eppure andai avanti con la mia devozione platonica; piccole dosi quotidiane di masochismo, harakiri inconcludente, un frontale sicuro. Ma se da una parte la cosa mi lacerava, dall'altro mi teneva viva.
Poi - stasera andiamo a prenderci un aperitivo!- mi disse; aveva dato un esame quel giorno, ed era andato bene. Voleva festeggiare con me. Ok, certo. Quindi uscimmo; era la metà di Giugno, l'aria era umida e noi avevamo vestiti leggeri. Le spalle di Greta erano deliziosamente nude.
Lei era allegra, cantava, io cantavo con lei; dopo il primo giro di prosecco, io presi un bicchiere di rosso. Nel locale avevano messo su musica anni Ottanta- Abba, Blondie e Michael Jackson. Il mio cervello cominciò a galleggiare. Ridevo e abbracciavo la Graziosa Madonna Gloria. Al terzo bicchiere raggiunsi un'euforia disinibita. Uscimmo a fumare e lei si appoggiò al muro accanto a me. - Fammi fare un tiro-, mi chiese.
Invece mi girai e la baciai. Le presi il viso con tutte e due le mani, buttando la cicca a terra, e affondai finalmente le mani nella seta dei suoi capelli. Le sue labbra erano morbide e asciutte e sentivo la pressione del suo petto contro il mio.
Tutto durò meno di un minuto, poi lei mi respinse. Cercò di sdrammatizzare, ci scherzò su accusandomi di essere ubriaca. Io ( che ubriaca lo ero davvero) invece le confessai tutto, biascicando e balbettando.
E ovviamente l'ho persa.
I giorni successivi sono stati imbarazzanti, anche se lei cercava di stare a casa il meno possibile. Era visibilmente a disagio con me. Tentai di parlarle, ma fece muro. Si barricò dietro a risposte secche e monosillabi. Con tutta la dignità che mi era rimasta, quindi, impacchettai le mie cose e cercai un'altra sistemazione.
Non fece parola di quello che era successo con gli altri inquilini, né si fece vedere quando traslocai. Avrebbe potuto almeno salutarmi; non pensavo l'avrebbe presa così, la credevo diversa. In un certo senso, mi ha deluso. Peccato, però: baciava bene.


giovedì 28 marzo 2013

LA COSTRUZIONE DEI RICORDI

- Ma non vai con gli altri?-.
“Gli altri” sono andati a farsi il bagno; io me ne sto seduto sulla stuoia con l'agenda appoggiata sulle ginocchia. Alla domanda di Lucia, scuoto la testa.
- Nemmeno io, l'acqua è fredda- continua lei sedendosi accanto a me. Io tengo ancora la penna puntata sulla pagina, leggermente seccato per l'interruzione.
- Perché scrivi sempre? Stai scrivendo un libro?-. Sembra che voglia fare conversazione sul serio.
- No-, chiudo l'agenda e la metto da una parte.
- Allora perché?-.
- Per me....-. Ma i suoi occhi grigi, piccoli come piccola è lei, non sono soddisfatti della risposta.
Cerco di articolare: - Costruisco ricordi. Annoto pensieri e fatti, scrivo di persone che incontro e di cose che vedo....per ricordarmene-.
- E' importante ricordare?-.
- Sì, mi piace andare a rileggere quello che ho scritto mesi prima. Riscopro cose che altrimenti di sicuro dimenticherei-.
E' la verità: non ho nessun obiettivo letterario, cerco solo di immortalare la mia realtà. E' così bella e sconvolgente nella sua molteplicità che a volte nemmeno la comprendo. Cristallizzarla su carta, in un certo senso, la rende più intellegibile. 
Ho tentato per molto tempo di decifrare il collage del mondo, guardandolo da più angolazioni – destra, sinistra, lontano vicino. Mica facile. Dopo anni di letargo intellettuale, ho capito che la felicità è una questione di dosi. A che volume ascolti la musica? Quanto zucchero nel caffè? Tende tirate, tapparelle abbassate; quanta luce nella stanza?
Con quanta prudenza vivi ogni giorno? La prudenza è importante, ma non si parte con il freno a mano tirato. Alza il volume.
Bisogna sapersi regolare con le quantità – troppa vita confonde, troppo poca ammorba- concetto relativo come il “salare quanto basta”. A volte tutto è così veloce che per tenere il ritmo mi lascio scivolare negli eventi senza nemmeno cercare di capire- un'altra sigaretta, un altro caffè, mi sento ancora inadeguato. E poi arrivi spossato a fare il bilancio della giornata. Quante ore sono stato fuori casa? Quanto ho speso oggi? Ti accorgi che il tabacco scarseggia. Ma che giorno è? Quanti caffè ho bevuto?
E allora scrivo.
- A che pensi?-. Lucia è ancora accanto a me in tutta la sua lentigginosa magrezza, i triangoli del costume tirati sul seno praticamente piatto. Non riesco a trovare una risposta migliore di un semplice “niente”.
- Ne hai riempiti altri, di diari?-.
- Be', sì, ormai sono almeno due o tre anni che ho quest'abitudine....-.
- Ma come ti è venuto in mente? Cioè, io lo facevo quando andavo al liceo, ma adesso non avrei la costanza di scrivere tutti i giorni-.
- Ma io lo faccio solo quando ne ho voglia, solo quando ho qualcosa di valido da scrivere-.
Sì,perché ci sono anche quelle giornate tediosamente grigie, uno sbadiglio da mattina a sera, da cui non riesci a cavare un solo momento di poesia e ti auguri sinceramente che non te ne capitino mai più di simili. Invece si può star sicuri che ce ne saranno altre.
- Anch'io comunque conservo scontrini o biglietti del cinema....per ricordo. Mi dispiace proprio buttarli se mi sono divertita-. Si gratta il naso; all'anulare porta un anellino di rame. - Li tengo in un cassetto. Quando mi capita di guardarci, ripenso “ah, come sono stata bene quella sera!”. Già....hai ragione, ricordare è importante-.
- Non è sempre piacevole, però. Mi è capitato un paio di volte di rileggere cose che non avrei mai voluto che accadessero, e invece me le ritrovavo vive e nitide stampate sulla carta.... ho strappato le pagine, giuro-. E ho avuto la ( falsissima) illusione di avere cancellato il passato.
Lucia rimane zitta per circa un minuto; si mordicchia l'unghia del pollice fissandosi i piedi. Poi si alza, prende la borsa e mi dice  – Io vado a prendermi un gelato. Tu lo vuoi?-.
Scuoto la testa – No, ti ringrazio-.
Lei mi sorride. - Ti lascio scrivere allora... a dopo!-. E si allontana sulle sue lunghe gambe da cigno

martedì 26 marzo 2013

LA LINEA D'OMBRA

" Già, si va avanti. E anche il tempo va avanti, finché si scorge innanzi a noi una linea d'ombra che ci avverte che la regione della prima gioventù, anch'essa, la dobbiamo lasciare addietro. Questo è il periodo della vita in cui possono venire i momenti di cui ho parlato....Quali momenti? Di noia, ecco; di stanchezza, d'insoddisfazione. Momenti sconsiderati. Momenti, intendo, in cui chi è ancora giovane è disposto a commettere azioni sconsiderate, quali maritarsi d'improvviso oppure gettar via l'impiego senza ragione."

Joseph Conrad

domenica 3 marzo 2013

IL MONDO SOMMERSO

"Quale malattia ha una prognosi più certa e ineluttabile della vita stessa? Ogni mattina una persona dovrebbe dire ai suoi amici più cari : "Mi rammarico per la tua morte irrevocabile", come si dice a chiunque soffra di un male incurabile; non era forse proprio l'omissione universale di questo minimo gesto di simpatia e di comprensione a fornire il modello per l'innata riluttanza a discutere apertamente dei propri sogni?"

J.G. Ballard

martedì 26 febbraio 2013

PER UN PUGNO DI DOLLARI- parte II

Ho accettato.
Ora fisso il vuoto, il cellulare stretto in pugno. Penso al concetto di tradimento, me lo rigiro in testa come un pallone. Lo soppeso da tutte le angolazioni. Ho effettivamente tradito Stefano?
Sì: sono stata a letto con un altro di nascosto.
No: l'ho fatto per soldi, senza amore.
Quindi?
La questione rimane insoluta. La reiterazione del reato è tuttavia un'aggravante.
Mi stropiccio le palpebre, concentrandomi sugli scenari possibili per la serata. Uno: ci vado e prendo i soldi. E mi calpesto. Due: non ci vado, chiudo per sempre questa lurida parentesi, nessuno lo saprà mai e in qualche modo ce la caveremo.
Propendo per la prima opzione; poi mi sposto sulla seconda. Tentenno e saltello da una all'altra. Il cellulare mi cade due o tre volte, mi chino, lo raccolgo,e torno alla passività della meditazione. Lascio passare il tempo senza fare un passo fuori dal pantano. Morpheus, dove sei? Voglio la pillola blu....
Cristo, tanto lo so che non so dire di no a quei soldi maledetti; figurarsi se mi tiro indietro di fronte ad altri duecento euro.
Un po' mi detesto mentre mi cambio e metto su un'altra scusa da propinare a Stefano. Lo saluto con un bacio sulla guancia e gli faccio il solletico; ride scoprendo i denti bianchissimi e sulle guance si formano due fossette. E' così bello che mi vengono le lacrime agli occhi, allora esco rapida prima di ripensarci ( ma no, ma no, aspetta, non andare, sei ancora in tempo...). Zitto, grilloparlante, non ti sento. Anzi, mi fermo al bar e mi faccio un Negroni. Lo butto giù in poche sorsate e succhio le ultime gocce aspirando rumorosamente con la cannuccia. Alla salute dell'avvocato.
Stavolta non c'è musica, bensì un delicato odore di incenso alla cannella. Mi servo da bere senza troppe cerimonie, comincio ad avere caldo, entro in un tunnel nebbioso di impaziente euforia.
Facciamola breve.
Mi sfilo il vestito e lo butto a terra.
Andiamo, serviti e lasciami andare a casa.
Riccardo scambia la mia fretta per entusiasmo, si eccita. Si sposta in camera da letto; io prima di seguirlo bevo del Gewürztraminer direttamente dalla bottiglia. Invoco l'incoscienza, invece vedo le fossette di Stefano tra i grugniti gaudenti del magnaccia forense.
PILLOLA BLU, CAZZO, PILLOLA BLU!
Lacrime colano dagli angoli degli occhi serrati.
Muoviti a venire, vecchio.
Sono la spettatrice del momento più basso della mia vita.
Quando Riccardo mi crolla addosso, lo scosto seccamente, corro in salotto. Mi rimetto l'abito, ficco il reggiseno in borsa e mi verso del whisky. Finita...posso andare....Stefano...
- Eh brava, bimba...-. Mi cinge la vita. Bevo per non guardarlo. - Mi sei proprio piaciuta stasera, eri...- Gesticola. –... carica, diciamo. Tieni, un piccolo extra: te lo sei meritato-.
Prendo il rotolo di banconote e tiro fuori le chiavi della macchina.
- Ti vorrei qui fra due giorni, mi piace la tua compagnia. Ad ogni modo, ti richiamo-.
Balbetto qualcosa mentre cerco a tentoni la porta. Conto i soldi solo quando sono in auto: duecentosessanta. Li butto nella borsetta, insieme al reggiseno. Poi metto in moto e pigio sull'acceleratore come dovessi partorire da un momento all'altro. Ignoro i semafori. Casa, voglio casa.
Stefano dorme profondamente; mi inginocchio e guardo le lunghe ciglia, l'ombra di barba sulle guance glabre, le labbra sottili appena socchiuse. Dio, quanta bellezza dopo tanto squallore...
Mi rannicchio accanto a lui, annuso il profumo della sua pelle (no, non è il bagnoschiuma, né il detersivo: è proprio la sua pelle) e mi addormento.

giovedì 14 febbraio 2013

PER UN PUGNO DI DOLLARI - parte I

Giuro che non avrei immaginato di arrivare a questo.
Da un anno vivo con il mio compagno e da tre mesi sono disperatamente senza lavoro. Invio ogni giorno curriculum, entro in negozi e bar e ristoranti a chiedere se hanno bisogno di personale, mi sono proposta come baby-sitter e donna delle pulizie. Ho – abbiamo- bisogno di soldi. E detesto non avere niente da fare. I giorni sono lunghi corridoi bui e polverosi, in salita. Alle tre mi chiedo come farò ad arrivare alle cinque, allora pulisco o mi metto a fare una torta. Ma mi viene da piangere. Mi sento un bambino sano e arzillo costretto a letto.
Alle volte, quando proprio le pareti domestiche mi vengono in odio, vado al centro commerciale. Non sono i negozi ad interessarmi, butto giusto un occhio distratto alle vetrine, ma non posso permettermi nulla a due cifre per ora; vado al bar, mi siedo al tavolino e guardo chi passa. Gli esemplari da shopping mall. Coppie dallo sguardo vacuo ( lui e lei vestiti uguali, stessi pantaloni militari e stesse Nike), mamme traballanti su stivali col tacco che spingono carrozzine, adolescenti con cannucce di Estathè tra i denti. Li seguo con lo sguardo e un po' li invidio.
Qualche giorno fa ero davanti ad una tazzina vuota da venti minuti, quando un uomo mi ha chiesto il permesso di accomodarsi.
- Prego-, ho risposto. Mi è arrivata una zaffata di Acqua di Giò mentre lui si sedeva. Dopo il primo sorso di prosecco, ha garbatamente cominciato e fare conversazione. Io mi sono lasciata intrattenere, dopotutto non avevo molto altro da fare. Mi ha offerto da bere, e mentre mi porgeva il calice con il mio spritz, ho notato i braccialetti d'oro e la giacca Henry Cotton's. Cosa ci faceva uno che odorava di boutique in un piccolo centro commerciale?
Abbiamo continuato a chiacchierare per un paio di minuti, poi di punto in bianco lui ha detto :- Lo sa? Lei è carina, mi piace-.
- Ah, be', grazie...-.
- No, sul serio: ha personalità, oltre che un viso delizioso-.
L'ho guardato meglio in faccia: non arrivava ai cinquant'anni, mascelle ben sbarbate e carnagione scura (solarium?).
- Mi sembra il tipo che non si scandalizzerebbe se io le facessi una certa proposta...-. Fece un sorrisetto malandrino. Ovvio che era dannatamente sicuro di sé.
-Mi dica..-.
Lui si sporse verso di me, si avvicinò il più possibile al mio orecchio. - Vorrebbe venire da me stasera? Per intrattenermi. Le farei trovare dell'ottimo vino.... Ah, e un compenso, certo-.
Si ritrasse; era di nuovo elegantemente seduto e mi guardava senza il minimo imbarazzo.
Sbattei le palpebre.
Me l'aveva chiesto davvero?
E soprattutto, perchè non me n'ero ancora andata con fare indignato?
Per il compenso.
Sapevo che era una cosa disonorevole e non avrei mai accettato, ma le cifre possibili mi ronzavano in testa: sessanta? Settanta? Quanto ero quotata? Non sapevo come formulare la domanda; non volevo sembrare troppo veniale, anche se, Cristo, mi aveva praticamente chiesto di prostituirmi. - Quanto....- cominciai e lui mi precedette rapido e secco – Duecento-.
Quattro cinquantoni mi ballavano libidinosi di fronte agli occhi.
Non sapevo cosa rispondere; non dissi nulla. Lui molto diplomaticamente mi lasciò il suo numero, invitandomi con affabilità a pensarci su.
Quando tornai a casa, continuavo a rimuginare su quello strano incontro. Non riuscivo a riderci sopra e liquidarlo come pazzia. Cominciai a caricare la lavatrice sovrappensiero; era squallido, a dir poco squallido. Però d'altra parte erano soldi facili. Poco puliti, decisamente immorali, ma facili.
E Stefano?
Non poteva essere d'accordo. Comprensibile.
Sentii la lavatrice in bagno che fischiava in maniera insolita. Andai a controllare. - Che cazz...-. Scivolai sul pavimento bagnato. Allagato. Gemetti – No...Dio, no!-. Mi abbassai e scrutai dentro l'oblò. Tutto fermo. L'acqua era ancora saponosa.
Lavatrice guasta.
Asciugai furiosamente per terra: ci mancava giusto questa.
Quando Stefano rientrò da lavoro, tentò di aggiustarla. Tolse i panni, cercando di arginare la fuoriuscita d'acqua con un secchio, dette un'occhiata, ma si dovette arrendere. Si tolse la maglietta fradicia per passarsela sul viso. Imprecò sonoramente, e poi si morse il labbro inferiore.
Io lo fissavo, stanca e impotente.
- Saranno come minimo ottanta- cento euro per la riparazione di 'sta merda-. Anche lui era esausto, una stanchezza atavica che si portava avanti da secoli e gli aveva tracciato occhiaie violaprugna sul bel viso.
Si trascinò mestamente in camera. Io rimasi sola a pulire di nuovo il pavimento. La prospettiva di avere quei duecento euro mi martellava, ne avevamo un bisogno, cazzo, proprio bisogno....
Dovevo intrattenere quell'uomo che trasudava haute couture e champagne. Spogliarmi di fronte a lui. Lasciarmi toccare da lui.
Il presagio dell'umiliazione mi infiammava le guance.
- E' arrivata anche la bolletta della luce ieri...-.
Stavamo raschiando il fondo.
Chiusi la porta del bagno e chiamai il cicisbeo, parlando poco più che in un sussurro. Quando riattaccai, le ascelle mi sguazzavano nel sudore.
Mi feci la doccia e mi cambiai l'abito e la biancheria ( vergognandomi profondamente).
Non ho mai avuto il vizio di mordermi le unghie, ma quella sera per una buona mezz'ora mi azzannai il pollice, sputacchiando di tanto in tanto, prima di gracchiare con forzata nonchalance : - sai, stasera non ci sono... mi vedo con le ragazze. Mi hanno invitato a cena da loro- aggiunsi, come a sottolineare che non sarei uscita a scialacquare denaro che non avevamo.
Nel tragitto mi sentivo già sporca. Un paio di volte mi balenò l'idea di fare inversione e tornarmene indietro. Tuttavia il dispetto della lavatrice, perversa ghignante bestia satanica, dava gas alla macchina. “Se non si fosse rotta, non sarei andata. O forse sì....”. Ero in preda al panico da bivio; fino all'ultimo secondo, fuori davanti al citofono, contavo sulla possibilità di battere in ritirata.
Fissavo la targhetta in ottone lucido: avv. Riccardo Meoni. Stavo lì, impalata, con le braccia mosce lungo il corpo, sudavo di nuovo. - Cristo...-. Detti un ultimo morso all'unghia, poi suonai. Ritrassi subito il dito, spaventata dal trillo stentoreo del campanello.
Mi aprì senza nemmeno chiedere chi fossi; prima di entrare mi asciugai le mani ai jeans.
La musica di Miles Davis mi dette il benvenuto, e Riccardo mi sorrideva ossequioso come un maggiordomo – Prego, prego. Si accomodi. Vuole da bere?-.
Ovvio che sì. Buttai giù un Bellini a stomaco vuoto, pregando che mi arrivasse subito al cervello. Padre, perdonali perchè non sanno quello che fanno.
Sfacciatamente chiesi anche del vino.
- Ma prego, si serva pure!-.
Dopo un bicchiere di Pignoletto, mi abbandonai sullo schienale del morbido divano cremisi. Riccardo prese a giocherellare con i miei capelli. “ Passerà veloce. Tra qualche ora sarò di nuovo a casa, una cosa veloce, proprio veloce...”.
Chiaro che non è stato così. Ho avuto bisogno di altri due bicchieri di vino per smettere di essere palesemente ritrosa, ma non c'è sbronza che possa farmi dimenticare quello che è successo dopo. Un buco. Tutta la mia persona era ridotta a un buco. Il buco.
Mentre guidavo bestemmiavo mentalmente contro il Dio del Lavoro e del Denaro e contro la giustizia maligna di questa terra. Appena rincasata, sono scivolata in bagno. Mi sono rannicchiata in vasca, lavandomi a fondo. Mi facevo schifo e continuavo ad avere nelle narici l'odore del suo sudore e del suo sperma.
Ero indegna di condividere il letto con Stefano. E avevo ancora troppa adrenalina in corpo per dormire. Mi accesi una Chesterfield, la finii in meno di due minuti, dando un tiro dopo l'altro. Avevo la nausea. Mi inginocchiai di fronte al water e mi dissi, “be', finiamo in bellezza la serata”. Infilai due dita in gola e vomitai con sollievo tutta la (raffinata,costosa) merda alcolica che avevo in corpo. Dopodiché mi accoccolai sul divano, stringendo nel pugno i soldi guadagnati.
Stefano la mattina dopo mi svegliò scuotendomi delicatamente la spalla.
- Ehi.... Sandra, tutto a posto? Perchè hai dormito sul divano?-.
- Mhhh...sono...sono rientrata tardi, non volevo svegliarti-.
- Ma dai, non importava!-. Mi dette una carezza. - Io vado a lavoro. Buona giornata, tesoro-.
Rimasi sola. Ero improvvisamente sveglia; stavo male. Nascosi la faccia nel plaid. Prima di uscire, Riccardo mi aveva congedato con un buffetto sulla guancia.- Non mi sbagliavo: mi sei piaciuta. Ti richiamo nei prossimi giorni-.
Ti richiamo nei prossimi giorni : cazzo faccio, se mi rivuole?”. Non sapevo se avrei sopportato di nuovo di farmi togliere il reggiseno dall'avvocato. Nel complesso era un bell'uomo, ben conservato e tonico: ma era il corpo di uno sconosciuto che si avvinghiava al mio, e lo esplorava,e il mio spirito si era sfilato dalla pelle e aveva guardato tutto da un angolo della stanza.....
Io non avevo goduto. Neanche un po'.
Tuttavia, riflettevo, se fossi andata da lui una volta a settimana, in un mese sarei riuscita a tirare su circa ottocento euro. Cristo. “No basta, cavatemi gli occhi, non voglio più vedere....”.
Mi infilai sotto il blu della coperta e ci rimasi per qualche minuto, respirando piano il poco ossigeno che c'era. Riemersi e andai in cucina;leggero aroma di caffè. Mi preparai una moka da tre persone e me la bevvi tutta. Avevo ancora bisogno di smaltire la sbornia.
Quel giorno chiamai il tecnico per la lavatrice, pagai le bollette e comprai del pesce. Decisi di smettere di pensare, a volte è l'unica soluzione. Mi sarei posta il problema se e quando Riccardo mi avesse ricontattato. Magari non si sarebbe più fatto vivo, che ne sapevo.
Invece mi ha telefonato oggi.

mercoledì 23 gennaio 2013

TRA UNA CORSA E L'ALTRA

so che non dovrei disturbarti,
ha detto lui.

dici bene, ho risposto
io.

ma, è andato avanti lui, voglio dirti
che sono stato sveglio tutta la notte
a leggere il tuo
ultimo libro.
ho letto tutti i tuoi
libri.
io lavoro all'
uffcio postale.
ah, ho detto.
e vorrei intervistarti per
il nostro giornale.
no, ho detto, niente
interviste.
perché?, mi ha chiesto.
sono stanco delle interviste, non hanno
niente a che fare con
niente.
ascolta, ha continuato, te la faccio
facile, vengo a casa
tua oppure ti offro una cena da
Musso.
no, grazie, ho detto.
guarda, l'intervista in realtà non è per
il nostro giornale, è per
me, io sono scrittore e voglio uscirmene
dall'ufficio
postale.
ascolta, ho detto io, devi solo prendere una sedia
e sederti davanti alla tua
macchina da scrivere.
niente intervista?, ha domandato.
no, ho risposto.
si è
allontanato.
stavano uscendo in pista
 per la corsa successiva.
parlare con il ragazzo mi aveva
messo di cattivo
umore.
pensavano che la scrittura avesse
a che fare con
la politica delle
cose.
semplicemente non erano
abbastanza fuori
di testa
da sedersi a una
macchina da scrivere
e lasciare che le parole battano
i tasti.
non volevano
scrivere
volevano
diventare famosi
scrivendo.
sono andato a fare la mia
puntata.
è inutile farsi rovinare la
giornata
da una breve
conversazione.

Charles Bukowski

domenica 20 gennaio 2013

UN BRINDISI ALL'ASSURDITA'


Faccio spesso giochi e rituali, penso possano davvero cambiare il destino. Per esempio: cammino per strada e  mi dico che se riesco a toccare sette oggetti verdi, mi succederà qualcosa di bello. Quindi: palizzata, macchina, campana del vetro, cespuglio, borsa di una sconosciuta, portone, lattina di Heineken. Sette; suono il pianoforte nell'aria, soddisfatta.
Qualche giorno fa, ho scommesso che avrei incontrato per strada almeno quindici donne con borsetta Louis Vuitton (autentica o tarocca). Ne ho contate ventitré. E' la strada il vero specchio della società, non la televisione.
Adoro anche andare in biblioteca, anche se tra quelli scaffali mi sento potentemente ignorante. Ma c'è un buonissimo odore di carta inchiostrata e mi viene una gran fame di libri, cosi ne prendo sempre due o tre e esco stringendoli al petto e annusandoli. Poi magari nemmeno li leggo, ma mi sembra comunque di essere diventata più ricca.
Chi mi conosce dice che non mi sposerò mai, perché sono troppo strana; a me non pare, sinceramente, anche se piango molto più spesso degli altri. Piango ascoltando la musica,soprattutto. Piango nelle sere d'inverno perchè il freddo e il buio mi fanno paura. Oppure quando non parlo con nessuno per ore. Però mi faccio la doccia ogni giorno e faccio la raccolta differenziata, come tutti.
E ho uno scatolone pieno di pennarelli e matite, ma questo non l'ho detto a nessuno. Mi piace toccare i colori. Faccio spesso foto alle nuvole e al tramonto; il cielo è di una bellezza struggente, ma in pochi ci fanno caso. Via via le faccio sviluppare e le appendo alla parete in camera; il muro è tappezzato di sole e cirri.
Poi a volte, così dal nulla, cala il sipario: l'altro giorno passeggiavo nel parco, aveva appena smesso di piovere. Sentivo una punta di malinconica insoddisfazione e i miei calzini si stavano inzuppando. Mi sono ritrovata di fronte ad una grossa pozzanghera; anziché aggirarla e tirare dritto, mi sono fermata ad osservare il fondo fangoso della pozza. L'acqua rifletteva gli alberi. Un'immagine grigiogiallognola senza speranza.
I piedi erano bagnati e freddi.
Non riuscivo a superare la dannata pozzanghera, ero letteralmente paralizzata da schiacciante, immotivata disperazione che mi nasceva dalla bocca dello stomaco. E mi esplose in un urlo.
Ho urlato in mezzo al parco davanti ad un rigagnolo d'acqua – chinata in avanti, come stessi vomitando. In molti si erano voltati e commentavano la scena. Sono corsa via. E la gente continuava a fissare quella povera cretina che sgambettava. Avevo caldo alle gote e il fiatone e la borsa continuava a scendermi dalla spalla, ma sentivo di nuovo il sangue scorrere. Quando sono entrata in casa, ansimavo. E mi vergognavo anche un po' per quello che avevo fatto. Era una cosa senza senso, però mi sentivo meglio. Ho cominciato a ridacchiare; ma sì, gli altri mi daranno della matta, ma rideranno anche loro. “Che scema...” borbottavo, ma sorridevo. Mi sono versata del vino bianco, sono andata di fronte allo specchio e ho alzato il bicchiere guardandomi negli occhi: - Un brindisi all'assurdità-.
I miei amici, spero di poterli invitare tutti al mio matrimonio, un giorno. Cin cin.

venerdì 11 gennaio 2013

LETTERA DI SCUSE

Questa non è una semplice lettera. E' un'opera d'arte, biro su A4, in quanto atto di pentimento sincero. Io, Marco Bassi, stanco di portare rancore e contrizione stretti in petto, chiedo ufficialmente scusa a tutti quelli che ho offeso e/o ferito nell'arco fino ad oggi.
Mi dichiaro colpevole, seppur con qualche attenuante. Sì, perché ci sono stati dei momenti in cui, vi confesso, non vivevo, bensì mi lasciavo vivere. Mi accasciavo e inserivo il pilota automatico, troppo stanco di essere sbattuto tra alta e bassa marea; mi ascoltavo dire cose che non pensavo senza avere la forza di tapparmi la bocca. Mi pentivo. Ma poi reiteravo il reato, puntualmente.
Ero arrabbiato, prendevo a calci il nostro gatto, che poi mi graffiava quando mi chinavo per riempirgli la ciotola. Ero arrabbiato, prendevo a pugni l'armadio, andavo a correre sotto la pioggia, fumavo e fumavo e fumavo. Qualche volta mi sono inciso il polpaccio con il coltellino svizzero. Non che volessi farla finita, era un modo come un altro per sfuggire all'apatia. E mi leccavo sempre il sangue; trovavo strano che fosse salato. Ancora oggi son convinto che dovrebbe avere il sapore di Nero d'Avola. Neanche le lacrime hanno il sapore che dovrebbero, comunque.
A volte rifiutavo il mondo, altre elemosinavo amicizia per scappare dalla solitudine. Ho passato ore insulse con gente insignificante pur di non stare a casa. Cercavo di ravvivare i colori bevendo un po' e ridendo forte, ma dopo mi sentivo più depresso che mai. E mi dicevo “col cazzo, questa è l'ultima volta che mi faccio 'na serata così...”. Falso. Le ricadute erano frequenti.
I miei non capivano, nemmeno gli amici riuscivano a spiegarsi perchè riuscissi a diventare così maledettamente ringhioso. A lavoro celavo e dissimulavo, perché ovviamente non potevo pretendere che i miei colleghi sopportassero la mia personalità schizofrenica e scazzata. Due vite, letteralmente: una in cui rispondevo cordialmente al telefono e davo del Lei ai clienti, un'altra in cui mi sotterravo nelle viscere del mio inconscio e mi rotolavo nella mia sporcizia, con perversa soddisfazione aggiungo.
Perché?
Perché, dico a voi, perché dopo che sei stato preso a schiaffi unaduetrequattro volte da Messer Destino, diventi cinico e allergico ad ogni qualsivoglia forma di buonismo. Per forza.
Ma un corpo e una mente non possono contenere due personalità per troppo tempo; ho perso il controllo. Mi sono ingozzato oltre ogni limite di decenza, sono sprofondato volontariamente nei bassifondi con ubriaconi e puttane (gli unici esseri che sentivo affini). Dio che disperazione accecante......accecante. E il supplizio peggiore era che non riuscivo a vedere – nemmeno in lontananza- un'uscita.
Ma sono l'unico ad aver provato queste cose? A voi non è mai successo di fermarvi, colpiti da un'illuminazione fugace, e chiedervi “ Come ci sono arrivato fin qui? Ma giusto ieri non avevo diciassette anni? Che è successo?” ?
Comunque sia, progettai una via di fuga dal pantano. Non potevo rinnegare nessuna delle due parti, io ero – sono- entrambe: potevo solo fonderle, scartare il marcio da ognuna e ottenere così una sorta di equilibrio sperimentale. E' stato un processo lungo, gestazione e parto, ma provavo così tanta pietà per me stesso che ho avuto la pazienza di aiutarmi a tirarmi su quando inciampavo.
E così adesso chiedo perdono. Vorrei scusarmi personalmente con ognuno, con quelli che non ho più chiamato, con quelli a cui devo ancora dei soldi, con il mio vecchio gatto. Mi scuso con quel ragazzino con i denti storti con cui uscivo solo per scroccargli sigarette, con mio fratello per avergli fregato spiccioli dal portafoglio più e più volte, con la ragazza dai capelli rossi per aver subito puntato al suo seno burroso ( ci avevo parlato neanche mezz'ora, ma avevo già due Negroni in corpo...).
Vi stringerei la mano ad uno ad uno, potessi.
Lo faccio mentalmente, aggiungendo anche un ossequioso mezzo inchino. Per quelli che possono sentirmi, mi autodichiaro una Merda e mi dissocio dai miei comportamenti passati.
Spero che la consapevolezza dell'errore implichi già una qualche forma di perdono.


In fede,
Marco Bassi

lunedì 7 gennaio 2013

SENILITA'

Dopo le sei e mezza può aspettarsi la visita del figlio. La messa finisce intorno alle cinque e quaranta, quindi lei ha tutto il tempo di trascinare le gambe gonfie – due ciocchi nodosi e pesanti- fino a casa, un tragitto che un paio di polpacci fasciati nei jeans impiegherebbero non più di dieci minuti a percorrere. Carolina si gratta le croste attraverso le calze ortopediche, si segna passando davanti all'altare, strascica i mocassini sul marmo, si segna di nuovo uscendo. Mentre cammina dice il rosario; attraversa la strada bofonchiando l'Avemaria.
Il figlio, dicevamo, passa a trovarla subito dopo il lavoro. Carolina non è che sappia leggere benissimo l'orologio, ma più o meno riesce a regolarsi con la luce del sole. E il palinsesto TV. Il primo piano su Carlo Conti annuncia che è quasi l'ora.
Oggi per suo figlio ha preparato peperoni ripieni. Tira fuori dal forno il tegame, lo scoperchia e in uno slancio di pignoleria aggiunge una punta di peperoncino e una manciata di origano. Poggia la pirofila sul tavolo, si siede lentamente – tutti i muscoli del coccige cigolano- e aspetta.
Ronzio del frigo.
Caldaia.
Scarico del vicino.
Aspetta.
Televisione del vicino.
Aspetta.
Su tutto regna “l'Eredità”.
Quante parole ha pronunciato Carolina oggi? Stamane è andata al supermarket; ha comprato verza, fagioli e marmellata per sé e peperoni per il figlio. Ha incontrato un paio di conoscenti, e la cassiera riccia ( sempre rossetto sorridente) le ha dato come al solito il buongiorno, “come va, signora? Suo figlio?”, le ha chiesto. A messa ha potuto togliere ruggine dalle corde vocali, le sentiva tremare mentre intonava l' “Osanna nell'alto dei Cieli”.
Il motore di una macchina; Carolina fissa la porta aspettando il trillo del campanello. Che tace. La visita non era per lei. Si dondola avanti e indietro sulla sedia di paglia; è già buio, già buio. La sua cena è pronta, deve solo scaldarla. Stare a sedere le diventa insopportabile, le musichette e gli scrosci di applausi della TV le diventano insopportabili, prende uno strofinaccio e si mette a spolverare con foga. Ricomincia a recitare il rosario, prega contro quella piccola fitta al cuore e un improvviso mal di fegato, contro il sapore della bile in bocca e contro il colore ottuso delle mattonelle del cucinino, un punto squallido tra beige e giallosenape. Prega e sfrega lo straccio.
TLINNN- TLIIIIIIN.
Le sfugge un singhiozzo.
- Buonasera, mamma- Insieme a Riccardo entra uno spiffero. -Ma...hai gli occhi lucidi, che è successo?-.
- 'Un è nulla, m'ha dato noia la cipolla... T'ho fatto i peperoni come garbano a te, guarda!-.
- Ah, ma non importava...-. Ecco, ora si allenta i bottoni del cappotto e controlla la posta. - E' arrivata la bolletta della luce..-.
Vorrebbe accarezzarlo ma ormai è un uomo.
- Vuoi qualcosa da bere? O un biscotto?-.
-No, no.. ma gli occhi continuano a lacrimarti! Non sarà meglio andare dal dottore?-.-Macchè!- Le corde vocali vibrano, deve spostare l'attenzione di lui dalle lacrime, Carolina si mette a parlare del freddo, dei reumatismi (“sapessi che fathìa alzassi dal letto...Gesùmmaria!”), della cassiera del supermercato. Parla veloce, impastando le parole, mangiandosi le “t” e le “c”. Riccardo invece articola con calma, parla italiano, lui. Quando si alza per andare via, è sempre troppo presto; però dopo in casa rimane un alone di dopobarba e la piccola sala ha colori più vivi. E Carolina decide che gli confezionerà qualcosa ai ferri, forse una sciarpa o un gilet per andare a lavoro. Dovrebbe avere dei gomitoli di lana buona bianco latte. Mentre si infila la vestaglia da camera disegna mentalmente il modello – scollo a V, senz'altro- e continua a pregare. Prega per chi non c'è più, per chi c'è ancora, per sé, per il figlio, prega che domani sera, sferruzzando sferruzzando, arrivi presto.