Non credo più in Dio, nell'amore o nel
karma. Credo che vadano regolarmente tagliate le doppie punte e mi
fido solo del display contacalorie del tapis roulant. Non riesco più
ad arrivare a mio marito; o parliamo in due lingue diverse oppure,
quando riusciamo ad usare una lingua franca, discutiamo di cose
disgustosamente futili.
A cena tenevamo la tv rigorosamente
spenta; ora mi preoccupo di accenderla perchè ci sono stati dei
pasti in cui il silenzio era assordante- lo scroscio dell'acqua
versata nel bicchiere riecheggiava in tutto l'appartamento- e
consumavamo le pietanze in fretta, come bestie che grufolano nel
trogolo.
A casa ho sempre freddo. Ho trovato
pretesti per starci il meno possibile; dopo il lavoro vado in
palestra. Più grassi brucio, più mi sento realizzata come donna.
Eppure una volta ero una persona migliore. Sinceramente non so
quando ho cominciato ad imputridire; adesso mi ritrovo con le unghie
al gel limate e smaltate dall'estetista e non me ne importa niente.
Sfilo le banconote dal borsellino e pago la parrucchiera, e mi sento
patetica. Non bella.
Stasera c'è una cena di lavoro, io e
le mie colleghe andiamo in questo ristorante à la mode
e, mentre aspettiamo le portate, prendiamo un aperitivo al bancone.
L'ambiente è in semioscurità, fluorescente ed ammiccante, tutte le
donne portano scarpe con tacchi vertiginosi e plateau e le pareti
ospitano collezioni di fotoamatori. L'effetto polaroid pare sia di
gran moda.
Mi
appoggio sul banco e urlo “UN PROSECCO!” nell'orecchio del barman
pelato. Due tipi avvenenti siedono in cima agli sgabelli,
proprio di fianco a noi. Uno mi guarda, anzi mi fissa, poi mi
sorride; si alza e si avvicina. Mi approccia con una sicurezza che
sfiora l'arroganza e la presunzione. Me ne sto lì di fronte a lui ad
aspirare avide boccate di Armani Code e a osservare le labbra carnose
che si aprono e si chiudono al di sopra di una dentatura da pubblicità Colgate. Mi
sento sempre più arrendevole e realizzo di provare l'indecente
desiderio di leccargli la mascella perfettamente rasata.
Ci rincontriamo dopo che le nostre cene
sono finite. Mi propone di andarcene a bere un amaro da qualche altra
parte; io dico ok, va bene. Così mi ritrovo a flirtare sul
divanetto di un wine bar senza sensi di colpa, anzi con una
soddisfazione perversa. E i brividi quando mi sfiora i capelli.
Ma la femme fatale muore all'uscita dal
locale; montiamo in macchina sua e non perde un attimo a prendermi
per la nuca e baciarmi. Sento guizzare in bocca la lingua di questo
sconosciuto e sento di non volerlo, non ci voglio entrare in questa
terra incognita vestita di
buona sartoria. Lo scosto bruscamente, scendo, vado a grosse falcate
verso la mia macchina; dietro di me lui mi chiama indietro, ride, si
infuria, comincia a gridarmi svariati insulti (frigida,
puttana.....be' deciditi!).
Non lo guardo
finché non ho messo in moto la vettura. Guido allucinata: prendo le
curve larghe e in velocità e sento il vino sciabordare nello
stomaco. Mentre aspetto al semaforo, mi accendo una sigaretta. Un
regista che, dopo la prima, si accorge che il suo nuovo film è una
clamorosa cagata deve sentirsi così, suppongo. Riparto: la cenere si
sparge su sedili, cappotto e tappetini, la nicotina mi arriva subito
al cervello e entra di forza nello stomaco. Sono, fisicamente e
metafisicamente, nauseata.
A casa scappo
subito in bagno a rimettere: appoggio i gomiti sulla tazza e ascolto i
disgustosi risucchi e rantoli che la mia bocca produce. Entra Leo in
pigiama:- Ehi....che hai? Ti ha fatto male la cena?- .
Sputo una boccata.
- E' uno schifo... davvero, uno schifo-.
- Cos'è
che può averti dato noia?-. Mi giro a guardarlo; se ne sta sulla
soglia, ben lontano da quella massa malconcia e maleodorante che è sua
moglie. Io mi pulisco la bocca con la mano (sempre meno
dignitosamente) – Noi...noi siamo diventati schifo. Così..così..-
indico lo spazio che ci separa.
A fatica mi rialzo. Lui risponde – Sei ubriaca?-.
Scuoto la testa e
avanzo piano verso il salotto. - Dimmi che non è vero... Dio, è
insostenibile. Insostenibile-.
Mi butto
stancamente sul divano. Leo non risponde, si avvicina alla finestra e
prende una sigaretta. Lo fisso fumare e tacere, e ogni attimo di quel
silenzio ostinato mi esaspera sempre di più, sempre di più. Le
labbra si schiudono solo per espirare fumo, non emettono suoni. In
fondo la sua figura non è tanto più estranea del Signor Armanicode,
adesso. E questo pensiero è uno squarcio nel ventre, e io sono
esausta e ho la bocca impastata di rancido e lui non mi dice cosa
cazzo gli passa per il cervello. Dietro la barricata del mutismo, si
mette. Ma parla, per Dio, articola, esterna, esprimiti!
Mi lancio verso di
lui, afferro la mano che ormai regge il mozzicone, mi arrotolo la
manica della camicia e, ficcando i miei occhi nei suoi, scandisco :-
Vuoi fare una cosa per me, eh, vuoi? Se mi ami.... ascoltami e
guardami, se mi ami, spegnimi questa sigaretta sul braccio. Sì,
qua-.
- Ma che dici?
Ti faccio male, scema.... stenditi un altro po', dai -.
- Ti giuro che
fa più male questo tirare a campare-. Ostento il braccio nudo davanti a lui. Che sbatte le palpebre. Nient'altro.
- Gesù, te lo sto chiedendo io, spegni quella cazzo di sigaretta sul mio braccio! -.
- Gesù, te lo sto chiedendo io, spegni quella cazzo di sigaretta sul mio braccio! -.
- Non ha senso-.
- Spegnila!-
Leo si volta, afferra dalla libreria un dischetto in similvetro massiccio blu. Cerca di ridere. – Sei matta....questo l'hanno inventato apposta-. E preme il mozzicone sul fondo del posacenere.
- Spegnila!-
Leo si volta, afferra dalla libreria un dischetto in similvetro massiccio blu. Cerca di ridere. – Sei matta....questo l'hanno inventato apposta-. E preme il mozzicone sul fondo del posacenere.