mercoledì 28 novembre 2012

IL POSACENERE

Non credo più in Dio, nell'amore o nel karma. Credo che vadano regolarmente tagliate le doppie punte e mi fido solo del display contacalorie del tapis roulant. Non riesco più ad arrivare a mio marito; o parliamo in due lingue diverse oppure, quando riusciamo ad usare una lingua franca, discutiamo di cose disgustosamente futili.
A cena tenevamo la tv rigorosamente spenta; ora mi preoccupo di accenderla perchè ci sono stati dei pasti in cui il silenzio era assordante- lo scroscio dell'acqua versata nel bicchiere riecheggiava in tutto l'appartamento- e consumavamo le pietanze in fretta, come bestie che grufolano nel trogolo.
A casa ho sempre freddo. Ho trovato pretesti per starci il meno possibile; dopo il lavoro vado in palestra. Più grassi brucio, più mi sento realizzata come donna. Eppure una volta ero una persona migliore. Sinceramente non so quando ho cominciato ad imputridire; adesso mi ritrovo con le unghie al gel limate e smaltate dall'estetista e non me ne importa niente. Sfilo le banconote dal borsellino e pago la parrucchiera, e mi sento patetica. Non bella.
Stasera c'è una cena di lavoro, io e le mie colleghe andiamo in questo ristorante à la mode e, mentre aspettiamo le portate, prendiamo un aperitivo al bancone. L'ambiente è in semioscurità, fluorescente ed ammiccante, tutte le donne portano scarpe con tacchi vertiginosi e plateau e le pareti ospitano collezioni di fotoamatori. L'effetto polaroid  pare sia di gran moda.
Mi appoggio sul banco e urlo “UN PROSECCO!” nell'orecchio del barman pelato. Due tipi avvenenti siedono in cima agli sgabelli, proprio di fianco a noi. Uno mi guarda, anzi mi fissa, poi mi sorride; si alza e si avvicina. Mi approccia con una sicurezza che sfiora l'arroganza e la presunzione. Me ne sto lì di fronte a lui ad aspirare avide boccate di Armani Code e a osservare le labbra carnose che si aprono e si chiudono al di sopra di una dentatura da pubblicità Colgate. Mi sento sempre più arrendevole e realizzo di provare l'indecente desiderio di leccargli la mascella perfettamente rasata.
Ci rincontriamo dopo che le nostre cene sono finite. Mi propone di andarcene a bere un amaro da qualche altra parte; io dico ok, va bene. Così mi ritrovo a flirtare sul divanetto di un wine bar senza sensi di colpa, anzi con una soddisfazione perversa. E i brividi quando mi sfiora i capelli.
Ma la femme fatale muore all'uscita dal locale; montiamo in macchina sua e non perde un attimo a prendermi per la nuca e baciarmi. Sento guizzare in bocca la lingua di questo sconosciuto e sento di non volerlo, non ci voglio entrare in questa terra incognita vestita di buona sartoria. Lo scosto bruscamente, scendo, vado a grosse falcate verso la mia macchina; dietro di me lui mi chiama indietro, ride, si infuria, comincia a gridarmi svariati insulti (frigida, puttana.....be' deciditi!).
Non lo guardo finché non ho messo in moto la vettura. Guido allucinata: prendo le curve larghe e in velocità e sento il vino sciabordare nello stomaco. Mentre aspetto al semaforo, mi accendo una sigaretta. Un regista che, dopo la prima, si accorge che il suo nuovo film è una clamorosa cagata deve sentirsi così, suppongo. Riparto: la cenere si sparge su sedili, cappotto e tappetini, la nicotina mi arriva subito al cervello e entra di forza nello stomaco. Sono, fisicamente e metafisicamente, nauseata.
A casa scappo subito in bagno a rimettere: appoggio i gomiti sulla tazza e ascolto i disgustosi risucchi e rantoli che la mia bocca produce. Entra Leo in pigiama:- Ehi....che hai? Ti ha fatto male la cena?- .
Sputo una boccata. - E' uno schifo... davvero, uno schifo-. 
- Cos'è che può averti dato noia?-. Mi giro a guardarlo; se ne sta sulla soglia, ben lontano da quella massa malconcia e maleodorante che è sua moglie. Io mi pulisco la bocca con la mano (sempre meno dignitosamente) – Noi...noi siamo diventati schifo. Così..così..- indico lo spazio che ci separa. A fatica mi rialzo. Lui risponde – Sei ubriaca?-.
Scuoto la testa e avanzo piano verso il salotto. - Dimmi che non è vero... Dio, è insostenibile. Insostenibile-.
Mi butto stancamente sul divano. Leo non risponde, si avvicina alla finestra e prende una sigaretta. Lo fisso fumare e tacere, e ogni attimo di quel silenzio ostinato mi esaspera sempre di più, sempre di più. Le labbra si schiudono solo per espirare fumo, non emettono suoni. In fondo la sua figura non è tanto più estranea del Signor Armanicode, adesso. E questo pensiero è uno squarcio nel ventre, e io sono esausta e ho la bocca impastata di rancido e lui non mi dice cosa cazzo gli passa per il cervello. Dietro la barricata del mutismo, si mette. Ma parla, per Dio, articola, esterna, esprimiti!
Mi lancio verso di lui, afferro la mano che ormai regge il mozzicone, mi arrotolo la manica della camicia e, ficcando i miei occhi nei suoi, scandisco :- Vuoi fare una cosa per me, eh, vuoi? Se mi ami.... ascoltami e guardami, se mi ami, spegnimi questa sigaretta sul braccio. Sì, qua-.
- Ma che dici? Ti faccio male, scema.... stenditi un altro po', dai -.
- Ti giuro che fa più male questo tirare a campare-. Ostento il braccio nudo davanti a lui. Che sbatte le palpebre. Nient'altro.
- Gesù, te lo sto chiedendo io, spegni quella cazzo di sigaretta sul mio braccio! -.
- Non ha senso-.
- Spegnila!-
Leo si volta, afferra dalla libreria un dischetto in similvetro massiccio blu. Cerca di ridere. – Sei matta....questo l'hanno inventato apposta-. E preme il mozzicone sul fondo del posacenere.

sabato 24 novembre 2012

CANTILENA DI NATALE

Guardiamoci intorno; sono gli inizi di novembre e già spuntano abeti e renne per le strade. Bella storia, il Natale. La manovra commerciale più redditizia dell'anno. Sono cinico, dite? Forse. Ma mi sembra molto difficile credere che i produttori di panettoni badino a mettersi così per l'avanti solo per la salvezza delle nostre anime. Basta leggere gli ingredienti sul retro della confezione: farina, burro, zucchero, uova fresche, uva sultanina, lievito di pasta madre, scorze di agrumi candite, sale , sciroppo di zucchero invertito,sciroppi di glucosio o di glucosio-fruttosio, mono e digliceridi degli acidi grassi, acido sorbico .
L'ultima vigilia di Natale mi sono chiuso in casa a tapparelle abbassate e ho guardato Dracula di Bram Stoker, Miriam si sveglia a mezzanotte e Nosferatu il principe della notte di fila.
Non so, un tempo mi piaceva canticchiare Jingle Bells e fare biscotti da regalare, e decorare l'albero con bastoncini di zucchero. Poi però la vita ti insegna a disilluderti e diffidaree smetti di credere a chi ti dice “dai, risentiamoci per vederci una di queste sere”. Quelli non scombineranno mai le geometrie perfette del loro planning per te. Ma ti telefoneranno se ti succede una disgrazia, di questo si può stare certi. Se poi di mezzo ci sono donne o soldi, aspettati di tutto, specie se ti viene detto che è una “questione di principio”. Il principio è un paravento dietro cui si nasconde la brama di moneta sonante, un concetto di comodo. Per questo non credo nel buonismo candito, me ne vado in giro con lo sguardo torvo e grugnisco vedendo che il mondo comincia già a ricoprirsi di glassa natalizia. Quando ero un ragazzetto, mi faceva compassione vedere che c'era gente che doveva lavorare anche il 25 Dicembre; primi fra tutti gli autisti di autobus. Osservavo la desolazione delle vetture vuote mentre andavamo a pranzo dalla nonna, e pensavo al povero conducente che doveva trottare tutto il giorno per la tratta urbana praticamente a vuoto. Forse saliva qualche vecchietta o il solito povero diavolo avvinazzato.
Mi stupiva poi il fatto che, nonostante fosse Natale, andasse in onda il Tg : a chi potevano interessare gli affari di politica estera e interna, quel giorno, intontiti come si era dal sugo grasso delle lasagne? A ben pensarci inoltre, anche il mezzobusto con la cravatta e la scriminatura da una parte stava lavorando in un giorno festivo. E anche i cassieri del cinema; c'era un'intera schiera di invisibili che pedalava nell'ombra mentre la maggioranza se ne stava in panciolle.
Adesso anch'io lavoro per Natale: è il regalo migliore che possa farmi. I miei sono anziani, mezzi sordi e spesso in preda a raptus di demenza senile; a volte mi scambiano per il fratello che non ho. Per le feste comandate mi rendo disponibile l'intera giornata; faccio il barista e, mentre monto il latte per il cappuccino, osservo l'umanità al di là del bancone. Sorprendente come i nostri stomaci non siano mai sazi: ho rilevato questa sorta di bulimia sociale per cui, non importa quanto agnello sua suocera gli abbia preparato, l'Uomo Medio alle diciotto ordina un crodino e si abbuffa di noccioline e pizzette. Dio benedica l'happy hour.
Ma per me è sicuramente più edificante rimpinguare il mio conto in banca servendo tè a signori in tweed e sbirciare nei Natali altrui piuttosto che abbrutire su qualche divano di fronte ad un teleschermo che trasmette in loop film con renne parlanti, babbi natali in pericolo e bimbi americani pedanti. Sarebbe talmente deprimente che finirebbe senz'altro a taralli e vino. Pochi taralli e molto vino. Nel giorno in cui nasce Gesù Bambino meglio essere zelanti lavoratori che ubriachi molesti, giusto?

martedì 13 novembre 2012

SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO



      Spesso il male di vivere ho incontrato:
      era il rivo strozzato che gorgoglia,
      era l'incartocciarsi della foglia
      riarsa, era il cavallo stramazzato.
 
      Bene non seppi, fuori del prodigio
      che schiude la divina Indifferenza:
      era la statua nella sonnolenza
      del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. 

Eugenio Montale

giovedì 8 novembre 2012

LANGUORE

Sono l'lmpero al limite estremo della decadenza,
Che componendo acrostici indolenti
Con stile d'oro, ove danza il languore
Del sole, guarda passare i gran Barbari bianchi.

L'anima soletta ha male al cuore di noia densa.
Vi sono laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Ah non potere, io così fiacco, dai voti così lenti,
Non volervi fiorire un po' questa esistenza!

Ah! non volervi, non potervi un poco morire!
Ah! tutto è bevuto! Batillo, la smetti di ridere?
Tutto è bevuto, mangiato! Più niente da dire!

Solo, una poesiola un po' ingenua da buttare nel fuoco,
Solo, uno schiavo un po' donnaiolo che vi trascura,
Solo, una non si sa qual noia, che vi tortura!

Paul Verlaine

mercoledì 7 novembre 2012

MI INCHINO DI FRONTE ALL'ARTE, MA SULL'IGIENE NON SI TRANSIGE

Non so precisamente quanti giorni sono rimasto chiuso là dentro.
Non mi importava granchè di contare le ore e pensare di affrontare il fuori mi atterriva. Il fuori: permesso scusi, semaforo rosso, semaforo verde, clacson, prenda il numero e aspetti il suo turno, buongiorno vorrei... - sì sono dieciecinquanta, faretti manichini insegne, cani che pisciano.
Non avevo abbastanza energia per tutto questo.
Volevo solo la mia stanza, le tende tirate secondo necessità e l'odore di acrilico. Inoltre avevo avuto l'Idea e dovevo inseguirla subito, non potevo interrompere per, che so, andare al supermarket. L'Idea è volubile e caduca come il bel viso di una sconosciuta per strada: ci devi tenere gli occhi addosso finché puoi, perchè poi scomparirà per sempre.
E quindi mischiavo i colori secondo i dettami della Musa e non guardavo l'orologio; di tanto in tanto mi facevo un tè o un caffè e nell'appartamento i due aromi si fondevano, e io cercavo l'overdose aprendo un vasetto di curry o annusando il legno di una matita.
Ogni stimolo sensoriale confluiva nell'Idea; mi lasciavo suggestionare anche dalla cosa più insignificante – perché è così che si hanno le intuizioni più geniali. E quando il corpo comincia a dare segni di fame o stanchezza, allora il cervello è ancora più sensibile. Io approfittavo di questo stordimento per cambiare prospettiva, una lente deformante che mi rivelava nuove visioni. Per esempio l'altra sera ero sfibrato e mi sono affacciato alla finestra e vedere i tetti illuminati dall'alone arancia dei lampioni e le luci vicine e lontane delle finestre e la luna che galleggiava in alto, be' mi ha lasciato senza fiato. Mi sono buttato a dormire sul divano poi e ho fatto sogni grotteschi e incalzanti e mi hanno svegliato pungenti crampi allo stomaco. Alzandomi il pavimento si è inclinato e io ho barcollato fino alla dispensa. C'erano Simmental e fagioli. Svuotai entrambi i barattoli in una casseruola buttandoci olio e pepe ( ecco che un velo di fumo si sollevava, tulle bianco che avvolgeva manzo in gelatina).
Ho lavorato senza requie credo per i due giorni successivi; tutto quello che vedevo erano le mie mani (chiazze di pigmento rapprese sulla pelle e sotto le unghie) che pennellavano la tela ed era sempre più difficile distinguere dove finivo io e dove cominciava il quadro. Fino a che io ero il quadro, ero nel quadro, ero colore e le dita che l'hanno partorito. Era finito e io non riuscivo a non guardarlo ( veramente quella tela era stata bianca?) a non perdermi nei dettagli negli intrecci delle sfumature nei punti di luce nei chiaroscuri. Cantava con le voci di Caravaggio, Boldini, Klimt, Turner, Modigliani, Chagall..... Mi inginocchiai davanti al quadro, mi sdraiai ai suoi piedi fissandolo da sotto in su piangendo spossato – e Botticelli e Gaugin danzavano un valzer.
Dopo ricordo l'urlo penetrante di mia sorella e la sua figura gettata di slancio su di me. La tranquillizzai cercando di rialzarmi con disinvoltura, ma il suolo era diventato di nuovo di gelatina. Mi afferrò per il braccio e mi fece sedere.
- Gesù, ma che hai combinato? Puzzi come un cane bagnato!-. Federica studiò il tegame rimasto appoggiato su una pila di libri dal giorno prima.
- Lavorato; ho finito quello – indicai – ieri notte-. 
- E come sei finito a pelle d'orso sul pavimento?-.
- Boh....mi sarò addormentato...-.
-Per terra?!-.
Feci spallucce, avrei voluto parlarle dell'Idea, ma lei incalzò: coshaifatto, haimangiato, daquantotempononescidicasa, parole parole parole. Lei non commentava, ma mi guardava con il sopracciglio destro inarcato in un'espressione che mi ha sempre messo in soggezione.
Si accese una Marlboro e, tenendola elegantemente tra indice e medio, si grattò la fronte con il pollice – Ma perché fai così? Non ti riesce avere degli orari, dei ritmi normali? -.
Dio, quanto odio quella parola! Mi ingrugnii – Che vuol dire, normali?-. Biascicai e risputai l'aggettivo come fosse carne rancida. 
- Come tutti, che lavorano un tot di ore, poi si fermano e si fanno una doccia e vanno a fare la spesa ; Cristo, ma alla tua età vivi ancora di roba in barattolo! Ma ti rendi conto?-.
La guardai; era bellissima. O forse a me sembrava bellissima solo perché era mia sorella. Sta di fatto che la poesia dei suoi capelli raccolti ( ma dei ciuffi sfuggivano e le incorniciavano il viso) e del naso all'insù e delle sottili labbra a cuore mi deliziò nonostante stesse pronunciando quella che per i miei timpani era una sequela di eresie.
Ciccò in una delle tazzine sparse per casa e finì la sigaretta in silenzio. Fissava intensamente il quadro. Sospirò, e nell'ultima boccata di fumo c'era la sua preoccupata disapprovazione.
- E' geniale-. Lanciò uno sguardo obliquo alla mia camicia di jeans sgualcita e macchiata e lisa. - E' incredibile: tu, quello che mi ha vomitato sui piedi a Capodanno, che intingeva i cetriolini nella nutella e che ho visto piangere smoccicando centinaia di volte.....be', hai fatto questo-. Si passò dietro l'orecchio la ciocca ribelle, lisciandola più volte. - Se anche ti decidessi a darti una raddrizzata, a essere un po' più....regolare nei ritmi di vita....-.
Mi appoggiai allo schienale del divano e da molto lontano, stancamente, risposi – Io non pretendo di insegnarti a vivere; perché tu vuoi farlo con me? Perché non posso stare così e fare quello che mi rende felice? Io sono quello che sono: perché non puoi, semplicemente, accettarlo?-.
Improvvisamente mi sentii vecchio e rugoso, avevo voglia di piangere e dormire. Mi raggomitolai in un cantuccio del divano e chiusi gli occhi. Io non parlavo, lei non parlava. La sentivo respirare. Si schiarì la voce. - Dai, vieni a pranzo da me,così mi racconti di quest'ultimo parto....però prima fatti una doccia calda, per amor del cielo-. Mi prese per mano (una mano spalmata di crema alla mandorla e aloe, pelle liscia e fedina d'orobianco all'anulare); quando ho dischiuso le palpebre, l'ho rivista nei suoi vent'anni che mi chiedeva se poteva prendere in prestito il mio gilet di camoscio.
- Su, doccia; mi inchino di fronte alla tua arte, ma sull'igiene non transigo-.
Mi alzò strattonandomi; ho dovuto obbedire.


lunedì 5 novembre 2012

HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue. ”


Eugenio Montale

venerdì 2 novembre 2012

AL LETTORE - DA BAUDELAIRE CON AMORE

Al lettore

L’errore la stoltezza il peccato l’avarizia
occupano i nostri spiriti, sfibrano i nostri corpi,
e noi alimentiamo amabili rimorsi
come i mendicanti nutrono i pidocchi.

Testardi nel peccare, vigliacchi nei pentimenti,
con laute ricompense confessiamo le nostre colpe
e sereni rientriamo nel cammino fangoso
credendo che vili lacrime ci lavino dalle macchie.

Sul guanciale del male c’è Satana Trismegisto
che culla lungamente il nostro spirito incantato
e, sapiente alchimista, riesce a evaporare
il ricco metallo della nostra volontà.

È il Diavolo a tenere i fili che ci muovono!
Negli oggetti ripugnanti troviamo la bellezza;
discendiamo di un passo ogni giorno verso l’Inferno,
senza orrore, attraverso tenebre puzzolenti.

Come un povero debosciato morde e carezza
il seno martirizzato di una vecchia puttana,
noi rubiamo al volo un piacere clandestino
e lo spremiamo con forza come una vecchia arancia.

Serrati, formicolanti, come vermi a milioni,
popoli di Demoni ci gozzovigliano nei cervelli,
e quando respiriamo, con sordi lamenti,
il fiume della morte ci scende nei polmoni.

E se stupro, veleno, pugnale ed incendio,
non hanno ancora intrecciato dolci ricami
sulla tela banale dei nostri destini,
è che l’anima nostra non è abbastanza ardita.

Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le linci,
le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti,
mostri urlanti, ruggenti, striduli, rampanti
nel serraglio infame di tutti i nostri vizi,

Ve n’è uno più brutto, più cattivo, più immondo!
Benché non si riveli con gesti o con grida
farebbe volentieri della terra un rottame
e solo sbadigliando inghiottirebbe il mondo:

È la Noia – occhio carico di lacrime involontarie
sogna impiccagioni fumando il suo houka.
Tu, lettore, conosci questo mostro incantevole
 – ipocrita lettore – mio simile – mio fratello!

giovedì 1 novembre 2012

L'ARTE DELL'ATTESA

La solitudine è una brutta bestia. Un pezzo di formaggio muffito in frigo. Per cercare di sopportare mi sono svenduta a tipi decisamente mediocri. Nuovi numeri in rubrica da chiamare, diversi aromi di dopobarba, corpi più o meno glabri. La mia nausea però non passava. Vivevo di briciole d'illusione, parlavo allo specchio, scrivevo messaggi che avrei voluto ricevere, mitizzavo e mi lasciavo spogliare. Che squallore. Mi convinsi di avere problemi di dipendenza dal sesso, presi appuntamento da uno psichiatra. Quasi ci speravo, di venire bollata come erotomane: avrei elemosinato un po' di psicofarmaci e avrei raggiunto il nirvana. Mentre sedevo in sala d'aspetto, continuavo ad abbassarmi la gonna, tirandola per coprire le ginocchia.
Mi immaginai di entrare e beccare il dottore a pippare cocaina come il vecchio Sigmund. Invece mi aprì la porta dello studio, mi fece accomodare a sedere e io cominciai a parlare aggrappandomi all'orlo della sottana. La diagnosi non fu niente di eclatante: avevo solo fame. Ma non una fame qualunque che si potesse saziare con un tramezzino stantio o una merendina; era una voglia di qualcosa di esotico e sublime, ancestrale, una fame che non ti lascia dormire per i crampi allo stomaco – una bocca eternamente spalancata che ruminava saliva. E' normale seguire gli istinti, mi disse, è sano, anche se ovviamente un po' rischioso.
Niente antidepressivi.
Mi misi a digiuno. Non permisi più a nessuno di accarezzarmi i capelli. Avevo notato che le mani delle maggior parte delle persone erano sudice.
E poi successe; nemmeno ci sfiorammo, la prima volta che ci siamo incontrati. Eravamo nel dehors di un tipico Irish pub e io lo guardavo gesticolare mentre parlava. Muoveva il polso flessuosamente e usava espressioni tipo “come se non ci fosse un domani”, “ putacaso”, “al che gli faccio....e lui mi fa...”, “che mentecatto!”. Quando finii la mia Beck's, mi alzai e lo salutai con un cenno di testa e un sorriso. Me ne andai con il suo profumo nelle narici e il ventre caldo. Superfluo dire che ci rivedemmo ancora e ancora; la Grande Fame cessò. Amavo ed ero amata.
Tuttavia mi ha lasciata. Non voleva, ma ha dovuto farlo.
Ma non se n'è andato del tutto: una parte di lui è rimasta qui, tangibile e viva, e ora dorme nel mio letto. Mi ha lasciato in dono questa splendida creatura. Tre anni fa, per qualche strano meccanismo del destino ( che si è bellamente beffato dello zelo con cui io assumevo la pillola), sono rimasta incinta. Lui era stato abbandonato da un padre violento a dieci anni, se l'era filata dopo aver picchiato la madre per l'ultima volta, dopo averla battuta e schiaffeggiata e lasciata sanguinante e semi incosciente. Da quel giorno l'idea della paternità lo terrorizza. Per questo non poteva rimanere con me.
Non sono arrabbiata con lui; insieme eravamo felici e completi. Avremo potuto continuare ad esserlo, certo; lui avrebbe potuto affrontare la sua paura, guardarla nelle palle degli occhi e prenderla per i testicoli. Forse sarebbe andata bene. Forse. Ma tanto con le subordinate ipotetiche non si cambia il mondo.
Quando guardo la mia bimba, vedo lo stesso sguardo ambrato di lui e allora la bacio e per me è come se stessi baciando anche lui. Siamo uniti nell'inscindibile miscuglio genetico di nostra figlia. Nostra figlia: nessuna poesia può raggiungere il picco di bellezza di questo binomio possessivo-sostantivo.
Oggi l'ho portata con me a fare la spesa e le ho comprato la sua prima scatola di pennarelli: abbiamo passato il resto del pomeriggio a disegnare e adesso dorme. Ha le mani e il muso inzaccherati di colore e il ciuccio ben saldo nel pugno destro. Scivolo a prendere la macchinetta e le scatto diverse foto. La luce batte sul volto in modo splendido, caravaggesco: le ciglia lunghe gettano la loro ombra sulle guance.
WELCOME TO THE JUNGLE, WE GOT FUN AND GAMES....
Mi lancio sul cellulare prima che la bimba si svegli, metto male il piede e rispondo sbattendo contro la libreria. - Pron-ahi, pronto?-.
- Ehi, ciao...Ahem, senti non riattaccare, io è da un po' che volevo chiamarti e ci ho...sì insomma ci ho pensato tanto, quindi se potessi ascoltarmi...solo ascoltare un attimo...-.
Gesù! Mi genufletto sulla moquette e mi raggomitolo contro il mobile aggrappandomi al telefono e mordendo le nocche per non fargli arrivare i singhiozzi.
- E' che...ecco io mi chiedevo.... potrei - potrei vedere la bambina? Ti porto anche un po' di soldi, eh, ci mancherebbe... Ho trovato un lavoro lì da voi, a Lucca, e quindi sono tornato....ma volevo farlo comunque, intendo telefonarti...-. Pausa, respiro. Ancora respiro. - Che...che ne dici? Io..be' se sei arrabbiata è normale, hai ragione... porti ancora capelli lunghi e rossi? Quanto mi sono mancati...-. Lacrime nelle parole.- E la bimba, ti somiglia?-. Climax di commozione.
Ho quasi tre anni di cose arretrate da dirgli; rimangono tutte impigliate nelle corde vocali. - Io...sì, per me va....mh- mhhm..va bene, se vieni. Mi sa che Viola assomiglia più a te, sai-
- Allora...ecco, se non avete niente da fare magari passo più tardi...- e poi con una studiata palese nonchalance aggiunge – non so, se hai un compagno adesso e vuoi prima parlargliene...-.
Lo interrompo con una risata mista a un singhiozzo. - Idiota.....lo sai che t'aspetto...-.