lunedì 17 settembre 2012

ANCHE I GATTI PIANGONO



Era tutto lontano anni luce.
Tutto – ovattato, annuvolato, torbido. Nessun reale entusiasmo o brivido, nessuna vertigine abbastanza potente da togliermi il fiato. Un'anestesia totale che durava da mesi.
E' incredibile la fragilità del creato; anche il più granitico dei pilastri può improvvisamente disfarsi e sbriciolarsi come un biscotto ben inzuppato nel latte.
E poi ho perso anche lui.
Di mio padre e Francesco mi sono rimasti solo una manciata di bei ricordi e le foto che scattavo loro a tradimento. Entrambi crudelmente sottratti al mio tatto, alla vista - non poter più aspirare il loro odore.
Si dice che chi ti ama non ti abbandona mai veramente. Che rimane sempre accanto a te. Lo spirito fluttuante dell'amore cosmico, tuttavia, molto spesso non basta a soddisfare la fame dilaniante di quella voce in tutta la sua materialità, toni ascendenti e discendenti, risate, pause e balbettamenti.
In quel periodo avevo sempre freddo, sempre freddo. Però almeno ho imparato a non piangere. All’inizio le lacrime mi sorprendevano nei momenti più disparati, premevano per uscire a tradimento mentre io ero a lavoro o guidavo o passeggiavo per strada. Poi però nemmeno frignare aveva più senso. Ero come rimasta in secco, nemmeno più le energie per singhiozzare.
Sapevo che l'unico modo che avevo per salvarmi era proteggere quello che loro mi avevano lasciato. La sera mi chiudevo in camera, a volte rimanevo in silenzio sul letto a visualizzare memorie e parole, a volte frugavo nei cassetti alla ricerca di oggetti. In realtà tutto nel mondo mi parlava di loro ed emanava fragranze di tempi andati.
Il trucco era  smettere di guardare le crepe e le ragnatele e la muffa, e riuscire ad apprezzare la bellezza di quelle esperienze.
Allora mettevo su un disco dei Pink Floyd, mi accendevo una Lucky Strike e ripensavo a quando andavo da Francesco dopo il lavoro. A volte lo trovavo che schizzava bozzetti a carboncino, altre che cucinava il cous-cous, e fin dal vialetto fuori casa si sentiva l'aroma del curry.
Ricordo una sera in particolare: lui non aveva niente in frigo, aveva speso tutti i soldi per dei vinili che cercava da tempo e non gli era rimasto un centesimo per fare la spesa. Abbiamo frugato in tutte le dispense per racimolare qualcosa e alla fine abbiamo banchettato con penne all'olio, assenzio e Nick Cave& the bad seeds.
Stavamo delle ore a dipingere senza scambiarci una parola, dividendoci le ultime sigarette del pacchetto e passandoci i colori. Di parlare, non ce n'era bisogno.
Certo, altri momenti sono stati orribili, davvero orribili: quando lui cadeva in quello stato depressivo acuto, per esempio. Mi guardava mentre parlavamo ma era evidente che non mi vedeva; e io a mia volta non riuscivo a toccarlo. Cioè magari lo prendevo per le spalle e lo scrollavo o lo abbracciavo o gli tenevo la mano, ma non riuscivo davvero a sentirlo. Era – semplicemente- troppo lontano. Allora io facevo di tutto per riprenderlo, di tutto, ma era come cercare di afferrare del fumo che esce da un comignolo; e io continuavo a saltellare e sbracciarmi come una forsennata, torna giù per Dio, torna giù!
Invece seguivano frasi sibilline,ermetiche, drasticamente nichiliste a cui io opponevo sempre lo stesso interrogativo: perché non ti basta il mio amore per stare bene? Perché non ti basto io per guarire il tuo male di vivere?
Una risposta non è mai arrivata. Era questo che mi uccideva.
Non potevo certo immaginare che il cancro che stava facendo marcire la nostra vita insieme nel frattempo stesse corrodendo anche il fegato di mio padre.
Le Lucky Strike, le fumava Francesco; io continuavo a comprarle. Per sentire ancora il sapore della sua bocca.
Di mio padre invece aspiravo ingorda le tracce olfattive rimaste sui suoi pullover, sfogliavo i suoi libri cercando annotazioni a margine e dediche, giocherellavo delicatamente con gli occhiali da lettura. Anche il gatto sentiva che c’era qualcosa che non andava; e non che lui e papà fossero in buoni rapporti. C’era una sorta di competizione su chi dovesse essere il maschio dominante. Le pubblicità del cibo per gatti erano sempre un buon motivo per attaccare sermoni chilometrici sui nuovi target del mercato sciacallo, “le zitelle e le vecchie gattare che danno da mangiare alle loro palle di pelo cose che, al tempo di guerra, la gente se le sognava.....”. Romeo, la nostra palla di pelo, lo capiva che quelle invettive erano rivolte a lui. E non si faceva troppi scrupoli ad infilarsi tra le gambe del babbo mentre camminava, facendolo quasi inciampare. Si è beccato svariate pedate nel didietro per questo. Nonostante ciò, Romeo ora si aggirava dubbioso intorno alla camera da letto dei miei genitori oppure fissava il divano, il posto a sinistra, quello in cui il babbo si sedeva a leggere il giornale. Una volta l’ho trovato steso a pelle d’orso in mezzo al salotto che rantolava lievemente. Mi chinai per accarezzarlo; allora lanciò dei miagolii strozzati, angosciati. Mi spaventai; sembravano le grida di qualcuno che stesse soffocando. Evidentemente, anche i gatti piangono. Per me Romeo, assieme ai pullover, libri e tutto il resto, era un personaggio di un quadro ormai datato, un quadro di un’epoca che ha avuto un inizio e una fine.
In quei giorni, tutto il mio essere era impegnato a trattenere ricordi. Ad evocare due voci che mi avevano lasciato solchi profondi, che avevano saturato di poesia al mio passato ma che erano – drammaticamente- esclusi dal mio futuro.



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