Vivevo in un
bell'appartamento in una traversa di Via Zamboni, in pieno centro
città e a due passi dall'università. In camera avevo appeso
riproduzioni di Magritte e Schiele, andavo d'accordo con i miei
coinquilini e l'affitto era onesto. Però tre mesi fa ho dovuto
lasciare la casa.
La mia compagna di
stanza si chiamava Greta; era sottile e silenziosa come un'ombra.
Sempre curva su tomi di filologia e letteratura. All'inizio cercavo
di non fare rumore quando stavo in camera con lei, per non
disturbarla, e tra me pensavo che fosse un po' noiosa. Nozionismo
sterile, ecco.
Poi una sera mi ha
chiesto dei miei poster e siamo finite a parlare del cinema
neorealista e dell'animazione giapponese: se ne intendeva davvero. E
aveva un modo delizioso di raccontare.
Prendemmo
l'abitudine di guardarci un paio di film a settimana, noleggiavamo il
DVD alla biblioteca e sceglievamo una volta per uno. Bevevamo tè o
birra. Imparai a riconoscere il suo profumo, sedendo per ore accanto
a lei.
Spesso però la
sera andava dal suo ragazzo e non tornava a dormire. Non la rivedevo
che il pomeriggio del giorno dopo; rientravo a casa da lezione e la
trovavo seduta alla scrivania con le sue dispense e l'arcobaleno di
evidenziatori. Mi mettevo a studiare con lei; mi resi conto che la
sua presenza mi rassicurava, con i suoi modi pacati e il suo astuccio
pieno di penne colorate. Aveva un'aura positiva e luminosa, io invece
sono inquieta per natura, sempre sbattuta tra le maree della vita. Le
parlavo dei miei tormenti interiori appoggiata alla finestra aperta,
fumando una Camel dietro l'altra; lei mi ascoltava fissandomi,
perfettamente immobile, e dandomi tutta la sua attenzione. La foga e
la frustrazione che mettevo nelle parole mi faceva tremare le mani.
Mi sentivo così sporca al suo confronto. Lei indossava vestitini a
fiori e gonne a pieghe che le stavano d'incanto, e si appuntava i
capelli lunghi con un fermaglio di legno. “La invidio”, pensai
all'inizio. Volevo essere anch'io una fata leggiadra, invece ero un
nanetto goffo.
Ma il piacere che
provavo nel guardarla, mi resi conto, andava al di là della semplice
gelosia femminile o ammirazione. Notavo come un abito le scendesse
bene sui fianchi e quanto l'ovale del suo viso fosse aggraziato. Ero
dispiaciuta quando non la trovavo a casa. Le compravo dei regalini,
un bracciale o un libro usato, per farla contenta.
Una sera la aiutai
a piastrarsi i capelli, e mentre pettinavo le lunghe ciocche, sentivo
le dita che mi prudevano dal desiderio di accarezzarla. Era di una
bellezza radiosa, disarmante.
Mi ero innamorata
della mia coinquilina.
Ne presi atto senza
fare nulla; non potevo fare nulla. Lei aveva il suo Luca e stravedeva
per lui. L'idea che anche lei, da un giorno all'altro, si scoprisse
bisessuale per stare con me era quantomai ridicola. Impossibile.
Eppure andai avanti
con la mia devozione platonica; piccole dosi quotidiane di
masochismo, harakiri inconcludente, un frontale sicuro. Ma se da una
parte la cosa mi lacerava, dall'altro mi teneva viva.
Poi - stasera
andiamo a prenderci un aperitivo!- mi disse; aveva dato un esame
quel giorno, ed era andato bene.
Voleva festeggiare con me. Ok, certo. Quindi uscimmo; era la metà
di Giugno, l'aria era umida e noi avevamo vestiti leggeri. Le spalle
di Greta erano deliziosamente nude.
Lei era allegra,
cantava, io cantavo con lei; dopo il primo giro di prosecco, io presi
un bicchiere di rosso. Nel locale avevano messo su musica anni
Ottanta- Abba, Blondie e Michael Jackson. Il mio cervello cominciò a
galleggiare. Ridevo e abbracciavo la Graziosa Madonna Gloria. Al
terzo bicchiere raggiunsi un'euforia disinibita. Uscimmo a fumare e
lei si appoggiò al muro accanto a me. - Fammi fare un tiro-, mi
chiese.
Invece mi girai e
la baciai. Le presi il viso con tutte e due le mani, buttando la
cicca a terra, e affondai finalmente le mani nella seta dei suoi
capelli. Le sue labbra erano morbide e asciutte e sentivo la
pressione del suo petto contro il mio.
Tutto durò meno di
un minuto, poi lei mi respinse. Cercò di sdrammatizzare, ci scherzò
su accusandomi di essere ubriaca. Io ( che ubriaca lo ero davvero)
invece le confessai tutto, biascicando e balbettando.
E ovviamente l'ho
persa.
I giorni successivi
sono stati imbarazzanti, anche se lei cercava di stare a casa il meno
possibile. Era visibilmente a disagio con me. Tentai di parlarle, ma
fece muro. Si barricò dietro a risposte secche e monosillabi. Con
tutta la dignità che mi era rimasta, quindi, impacchettai le mie
cose e cercai un'altra sistemazione.
Non fece parola di
quello che era successo con gli altri inquilini, né si fece vedere
quando traslocai. Avrebbe potuto almeno salutarmi; non pensavo
l'avrebbe presa così, la credevo diversa. In un certo senso, mi ha
deluso. Peccato, però: baciava bene.