Non so precisamente quanti giorni sono
rimasto chiuso là dentro.
Non mi importava granchè di contare le
ore e pensare di affrontare il fuori mi atterriva. Il fuori:
permesso scusi, semaforo rosso, semaforo verde, clacson, prenda il
numero e aspetti il suo turno, buongiorno vorrei... - sì sono
dieciecinquanta, faretti manichini insegne, cani che pisciano.
Non avevo abbastanza energia per tutto
questo.
Volevo solo la mia stanza, le tende
tirate secondo necessità e l'odore di acrilico. Inoltre avevo avuto
l'Idea e dovevo inseguirla subito, non potevo interrompere per, che
so, andare al supermarket. L'Idea è volubile e caduca come il bel
viso di una sconosciuta per strada: ci devi tenere gli occhi addosso
finché puoi, perchè poi scomparirà per sempre.
E quindi mischiavo i colori secondo i
dettami della Musa e non guardavo l'orologio; di tanto in tanto mi
facevo un tè o un caffè e nell'appartamento i due aromi si
fondevano, e io cercavo l'overdose aprendo un vasetto di curry o
annusando il legno di una matita.
Ogni stimolo sensoriale confluiva
nell'Idea; mi lasciavo suggestionare anche dalla cosa più
insignificante – perché è così che si hanno le intuizioni più
geniali. E quando il corpo comincia a dare segni di fame o
stanchezza, allora il cervello è ancora più sensibile. Io
approfittavo di questo stordimento per cambiare prospettiva,
una lente deformante che mi rivelava nuove visioni. Per esempio
l'altra sera ero sfibrato e mi sono affacciato alla finestra e vedere
i tetti illuminati dall'alone arancia dei lampioni e le luci vicine e
lontane delle finestre e la luna che galleggiava in alto, be' mi ha
lasciato senza fiato. Mi sono buttato a dormire sul divano poi e ho
fatto sogni grotteschi e incalzanti e mi hanno svegliato pungenti
crampi allo stomaco. Alzandomi il pavimento si è inclinato e io ho
barcollato fino alla dispensa. C'erano Simmental e fagioli. Svuotai
entrambi i barattoli in una casseruola buttandoci olio e pepe ( ecco
che un velo di fumo si sollevava, tulle bianco che avvolgeva manzo in
gelatina).
Ho lavorato senza requie credo per i
due giorni successivi; tutto quello che vedevo erano le mie mani
(chiazze di pigmento rapprese sulla pelle e sotto le unghie) che
pennellavano la tela ed era sempre più difficile distinguere dove
finivo io e dove cominciava il quadro. Fino a che io ero
il quadro, ero nel
quadro, ero colore e le dita che l'hanno partorito. Era finito e io
non riuscivo a non guardarlo ( veramente quella tela era stata
bianca?) a non perdermi nei dettagli negli intrecci delle sfumature
nei punti di luce nei chiaroscuri. Cantava con le voci di Caravaggio,
Boldini, Klimt, Turner, Modigliani, Chagall..... Mi inginocchiai
davanti al quadro, mi sdraiai ai suoi piedi fissandolo da sotto in su
piangendo spossato – e Botticelli e Gaugin danzavano un valzer.
Dopo ricordo l'urlo
penetrante di mia sorella e la sua figura gettata di slancio su di
me. La tranquillizzai cercando di rialzarmi con disinvoltura, ma il
suolo era diventato di nuovo di gelatina. Mi afferrò per il braccio
e mi fece sedere.
- Gesù, ma che
hai combinato? Puzzi come un cane bagnato!-. Federica studiò il
tegame rimasto appoggiato su una pila di libri dal giorno prima.
- Lavorato;
ho finito quello –
indicai – ieri notte-.
- E come sei
finito a pelle d'orso sul pavimento?-.
- Boh....mi sarò
addormentato...-.
-Per terra?!-.
Feci spallucce,
avrei voluto parlarle dell'Idea, ma lei incalzò: coshaifatto,
haimangiato, daquantotempononescidicasa, parole parole parole. Lei
non commentava, ma mi guardava con il sopracciglio destro inarcato in
un'espressione che mi ha sempre messo in soggezione.
Si accese una
Marlboro e, tenendola elegantemente tra indice e medio, si grattò la
fronte con il pollice – Ma perché fai così? Non ti riesce avere
degli orari, dei ritmi normali? -.
Dio,
quanto odio quella parola! Mi ingrugnii – Che vuol dire, normali?-.
Biascicai e risputai l'aggettivo come fosse carne rancida.
- Come tutti,
che lavorano un tot di ore, poi si fermano e si fanno una doccia e
vanno a fare la spesa ; Cristo, ma alla tua età vivi ancora di roba
in barattolo! Ma ti rendi conto?-.
La guardai; era
bellissima. O forse a me sembrava bellissima solo perché era mia
sorella. Sta di fatto che la poesia dei suoi capelli raccolti ( ma
dei ciuffi sfuggivano e le incorniciavano il viso) e del naso
all'insù e delle sottili labbra a cuore mi deliziò nonostante
stesse pronunciando quella che per i miei timpani era una sequela di
eresie.
Ciccò in una delle tazzine sparse per
casa e finì la sigaretta in silenzio. Fissava intensamente il
quadro. Sospirò, e nell'ultima boccata di fumo c'era la sua
preoccupata disapprovazione.
- E' geniale-. Lanciò uno sguardo
obliquo alla mia camicia di jeans sgualcita e macchiata e lisa. - E'
incredibile: tu, quello che mi ha vomitato sui piedi a Capodanno,
che intingeva i cetriolini nella nutella e che ho visto piangere
smoccicando centinaia di volte.....be', hai fatto questo-. Si
passò dietro l'orecchio la ciocca ribelle, lisciandola più volte.
- Se anche ti decidessi a darti una raddrizzata, a essere un po'
più....regolare nei ritmi di vita....-.
Mi appoggiai allo schienale del divano
e da molto lontano, stancamente, risposi – Io non pretendo di
insegnarti a vivere; perché tu vuoi farlo con me? Perché non posso
stare così e fare quello che mi rende felice? Io sono quello che
sono: perché non puoi, semplicemente, accettarlo?-.
Improvvisamente mi sentii vecchio e
rugoso, avevo voglia di piangere e dormire. Mi raggomitolai in un
cantuccio del divano e chiusi gli occhi. Io non parlavo, lei non
parlava. La sentivo respirare. Si schiarì la voce. - Dai, vieni a
pranzo da me,così mi racconti di quest'ultimo parto....però prima
fatti una doccia calda, per amor del cielo-. Mi prese per mano (una
mano spalmata di crema alla mandorla e aloe, pelle liscia e fedina
d'orobianco all'anulare); quando ho dischiuso le palpebre, l'ho
rivista nei suoi vent'anni che mi chiedeva se poteva prendere in
prestito il mio gilet di camoscio.
- Su, doccia; mi inchino di fronte
alla tua arte, ma sull'igiene non transigo-.
Mi alzò strattonandomi; ho dovuto
obbedire.
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