giovedì 1 novembre 2012

L'ARTE DELL'ATTESA

La solitudine è una brutta bestia. Un pezzo di formaggio muffito in frigo. Per cercare di sopportare mi sono svenduta a tipi decisamente mediocri. Nuovi numeri in rubrica da chiamare, diversi aromi di dopobarba, corpi più o meno glabri. La mia nausea però non passava. Vivevo di briciole d'illusione, parlavo allo specchio, scrivevo messaggi che avrei voluto ricevere, mitizzavo e mi lasciavo spogliare. Che squallore. Mi convinsi di avere problemi di dipendenza dal sesso, presi appuntamento da uno psichiatra. Quasi ci speravo, di venire bollata come erotomane: avrei elemosinato un po' di psicofarmaci e avrei raggiunto il nirvana. Mentre sedevo in sala d'aspetto, continuavo ad abbassarmi la gonna, tirandola per coprire le ginocchia.
Mi immaginai di entrare e beccare il dottore a pippare cocaina come il vecchio Sigmund. Invece mi aprì la porta dello studio, mi fece accomodare a sedere e io cominciai a parlare aggrappandomi all'orlo della sottana. La diagnosi non fu niente di eclatante: avevo solo fame. Ma non una fame qualunque che si potesse saziare con un tramezzino stantio o una merendina; era una voglia di qualcosa di esotico e sublime, ancestrale, una fame che non ti lascia dormire per i crampi allo stomaco – una bocca eternamente spalancata che ruminava saliva. E' normale seguire gli istinti, mi disse, è sano, anche se ovviamente un po' rischioso.
Niente antidepressivi.
Mi misi a digiuno. Non permisi più a nessuno di accarezzarmi i capelli. Avevo notato che le mani delle maggior parte delle persone erano sudice.
E poi successe; nemmeno ci sfiorammo, la prima volta che ci siamo incontrati. Eravamo nel dehors di un tipico Irish pub e io lo guardavo gesticolare mentre parlava. Muoveva il polso flessuosamente e usava espressioni tipo “come se non ci fosse un domani”, “ putacaso”, “al che gli faccio....e lui mi fa...”, “che mentecatto!”. Quando finii la mia Beck's, mi alzai e lo salutai con un cenno di testa e un sorriso. Me ne andai con il suo profumo nelle narici e il ventre caldo. Superfluo dire che ci rivedemmo ancora e ancora; la Grande Fame cessò. Amavo ed ero amata.
Tuttavia mi ha lasciata. Non voleva, ma ha dovuto farlo.
Ma non se n'è andato del tutto: una parte di lui è rimasta qui, tangibile e viva, e ora dorme nel mio letto. Mi ha lasciato in dono questa splendida creatura. Tre anni fa, per qualche strano meccanismo del destino ( che si è bellamente beffato dello zelo con cui io assumevo la pillola), sono rimasta incinta. Lui era stato abbandonato da un padre violento a dieci anni, se l'era filata dopo aver picchiato la madre per l'ultima volta, dopo averla battuta e schiaffeggiata e lasciata sanguinante e semi incosciente. Da quel giorno l'idea della paternità lo terrorizza. Per questo non poteva rimanere con me.
Non sono arrabbiata con lui; insieme eravamo felici e completi. Avremo potuto continuare ad esserlo, certo; lui avrebbe potuto affrontare la sua paura, guardarla nelle palle degli occhi e prenderla per i testicoli. Forse sarebbe andata bene. Forse. Ma tanto con le subordinate ipotetiche non si cambia il mondo.
Quando guardo la mia bimba, vedo lo stesso sguardo ambrato di lui e allora la bacio e per me è come se stessi baciando anche lui. Siamo uniti nell'inscindibile miscuglio genetico di nostra figlia. Nostra figlia: nessuna poesia può raggiungere il picco di bellezza di questo binomio possessivo-sostantivo.
Oggi l'ho portata con me a fare la spesa e le ho comprato la sua prima scatola di pennarelli: abbiamo passato il resto del pomeriggio a disegnare e adesso dorme. Ha le mani e il muso inzaccherati di colore e il ciuccio ben saldo nel pugno destro. Scivolo a prendere la macchinetta e le scatto diverse foto. La luce batte sul volto in modo splendido, caravaggesco: le ciglia lunghe gettano la loro ombra sulle guance.
WELCOME TO THE JUNGLE, WE GOT FUN AND GAMES....
Mi lancio sul cellulare prima che la bimba si svegli, metto male il piede e rispondo sbattendo contro la libreria. - Pron-ahi, pronto?-.
- Ehi, ciao...Ahem, senti non riattaccare, io è da un po' che volevo chiamarti e ci ho...sì insomma ci ho pensato tanto, quindi se potessi ascoltarmi...solo ascoltare un attimo...-.
Gesù! Mi genufletto sulla moquette e mi raggomitolo contro il mobile aggrappandomi al telefono e mordendo le nocche per non fargli arrivare i singhiozzi.
- E' che...ecco io mi chiedevo.... potrei - potrei vedere la bambina? Ti porto anche un po' di soldi, eh, ci mancherebbe... Ho trovato un lavoro lì da voi, a Lucca, e quindi sono tornato....ma volevo farlo comunque, intendo telefonarti...-. Pausa, respiro. Ancora respiro. - Che...che ne dici? Io..be' se sei arrabbiata è normale, hai ragione... porti ancora capelli lunghi e rossi? Quanto mi sono mancati...-. Lacrime nelle parole.- E la bimba, ti somiglia?-. Climax di commozione.
Ho quasi tre anni di cose arretrate da dirgli; rimangono tutte impigliate nelle corde vocali. - Io...sì, per me va....mh- mhhm..va bene, se vieni. Mi sa che Viola assomiglia più a te, sai-
- Allora...ecco, se non avete niente da fare magari passo più tardi...- e poi con una studiata palese nonchalance aggiunge – non so, se hai un compagno adesso e vuoi prima parlargliene...-.
Lo interrompo con una risata mista a un singhiozzo. - Idiota.....lo sai che t'aspetto...-.

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